Il portafogli del Dragone è sempre più vuoto

In by Gabriele Battaglia

La Cina si trova ad affrontare un problema di mancanza di liquidità. E ora attraverso uno dei suoi organi finanziari, la China Investment Corp, si domanda come far fruttare i propri investimenti. Unico problema: una gestione che negli ultimi anni ha portato a investimenti sbagliati e alla creazione di strumenti di credito "creativi" per la speculazione
Ansia da prestazione. È questo, a tutti gli effetti, il problema della Cina in questi giorni, ma il sesso non c’entra nulla. Il problema, sia sul fronte interno sia su quello esterno è: come fare soldi dai soldi? Detta altrimenti: come rendere proficui gli investimenti bancari che finiscono nei buchi neri dei crediti tossici e della bolla immobiliare (fronte interno)?

Come esprimere al meglio la potenza della China Investment Corporation, il grande fondo da 480 miliardi di dollari che veicola gli investimenti cinesi all’estero e che oggi appare paradossalmente a corto di soldi?

Il campanello d’allarme è suonato nei giorni scorsi, con il credit crunch che ha colpito le maggiori banche. Nel week-end, per alcune ore, i bancomat di tutta la Cina avevano smesso di funzionare ed era corsa addirittura voce che la Bank of China fosse incorsa in un default nel credito interbancario (i prestiti che gli istituti di credito si fanno a vicenda).

In questo quadro, offre materia di riflessione la notizia secondo cui il dipartimento di Propaganda avrebbe imposto ai media di tutto il Paese di allinearsi su un tono rassicurante. Questo è un problema, perché come osserva l’esperto di cose cinesi Bill Bishop, la scarsa trasparenza alimenta le voci di corridoio e i mercati tendono a credere a quelle più apocalittiche: “In Cina, se i media ufficiali confutano qualcosa la prima reazione di molti è ‘quindi deve essere vero’. Se si verifica una situazione di panico diffuso la scarsa credibilità ufficiale potrebbe finire per avere un ulteriore effetto accelerante”.

Ora cominciano ad emergere maggiori dettagli. Il New York Times riporta per esempio che nel corso del mese scorso i cellulari di molti ricchi cinesi sono stati tempestati da sms delle maggiori banche che offrivano prodotti di gestione patrimoniale altamente lucrativi, con rendimenti molto superiori al tasso d’interesse imposto politicamente dal governo.

La China Merchants Bank offriva per esempio un “prodotto” a 90 giorni con un tasso di interesse del 5,5 per cento, elevato poi al 6 nel giro di un solo giorno. Bisogna considerare che il più alto tasso fissato dai regolatori bancari restituisce un modesto 3,3 per cento. Si apprende ora che le banche offrono ai clienti prodotti a più alto rendimento alla fine di ogni trimestre.

È il business collaterale, fuori dal controllo delle autorità di regolamentazione bancaria. È parte di quei 6mila miliardi di dollari che ormai alimentano il “credito ombra” (o “sistema bancario ombra”), la sciagura che il governo cinese cerca ora di contenere.

Sia i regolatori cinesi, sia un buon numero di economisti, politici e investitori temono ora che le banche di Stato utilizzino prodotti molto rischiosi di di wealth management per riconfezionare vecchi prestiti e sostenere le imprese più traballanti in progetti che non potrebbero altrimenti accedere ad alcun credito. La maggior parte delle banche offre infatti pochi dettagli su dove saranno investiti i soldi.

È tuttavia opinione corrente che il denaro finisca ai palazzinari e agli improbabili e “creativi” strumenti finanziari con cui le amministrazioni locali si tengono a galla: quei settori a cui le stesse banche, nella loro attività regolamentata, hanno ormai smesso di fare credito per sgonfiare la ormai insostenibile bolla immobiliare.

Quindi, i prestiti sono spesso concessi fuori bilancio: ecco cos’è il credito ombra. Gli interessi alti sono appetibili per tutti – il mutuatario, le banche e l’investitore – ovviamente finché qualcuno ripaga il debito contratto. Dopo di che, abbiamo un bello “schema Ponzi”, la catena di Sant’Antonio che, quando smette di autoalimentarsi, crea un effetto domino di default.

Sì, è una vicenda subprime – i mutui “creativi” che scatenarono la crisi del credito Usa e poi globale nel 2008 – secondo caratteristiche cinesi. Come in quel caso, il rischio maggiore è che sfoci in una serie di fallimenti bancari.

Sta di fatto che le autorità cinesi appaiono così preoccupate da questa bolla montante di asset tossici che il mese scorso la banca centrale ha attuato una stretta sul credito del mercato interbancario, in quello che appare un drastico avvertimento: sappiamo che state scherzando con i soldi dei cinesi, smettetela!

La mossa – simile a una bastonata – ha avuto nell’immediato l’effetto di far schizzare verso l’alto i tassi di interesse a breve termine e ha parallelamente creato una stretta creditizia che ha debilitato le banche. E la mente corre a quei bancomat improvvisamente inservibili.

Ma il problema di non sprecare soldi esiste anche sul fronte degli investimenti all’estero. Secondo il South China Morning Post, Ding Xuedong, il nuovo presidente del fondo sovrano cinese, la China Investment Corporation (Cic), deve infatti affrontare due sfide immediate: fare più soldi dagli investimenti esteri del fondo e trovare capitali aggiuntivi.

Corre infatti voce che la Cic, un tempo magnificata come grimaldello del Dragone su tutti i mercati internazionali (480 miliardi di dollari di patrimonio), sia così a corto di soldi da non essere più in grado di fare grossi investimenti, tant’è che il governo cinese ha dovuto già ricapitalizzarla per 30 miliardi di dollari. Nella sua ultima relazione annuale (relativa al 2011), il fondo ha registrato una perdita del 4,3 per cento sul suo portafoglio di investimenti internazionali da 150 miliardi di dollari, la peggiore prestazione da quando è stata fondata nel 2007. Stride – secondo il quotidiano di Hong Kong – il paragone con il fondo sovrano di Singapore, Temasek, che restituisce agli investitori interessi del 15 per cento sugli investimenti di lungo periodo.

Decisamente, Pechino ha qualche problema di investimenti azzeccati.

[Scritto per Lettera43; foto credits: blogs.nottingham.ac.ak]