Il concorrente clandestino cinese di Mr World Gay

In by Simone

Come in un film: un giovane cinese, grazie alla complicità dell’ambasciata norvegese che gli ha rilasciato a tutta velocità un visto, sale su un aereo: destinazione Oslo. Obiettivo, partecipare alla competizione che eleggerà Mr World Gay. Il giovane, 25 anni, rappresenterà la Cina ed appartiene agli Hui, la minoranza etnica musulmana della regione cinese uighura. Originario del Xinjiang, la regione nord occidentale spina nel fianco del governo cinese e assurta agli onori delle cronache lo scorso luglio per una violenta rivolta etnica. Oltre duecento i morti, oltre mille gli arrestati, molti dei quali di etnia uighura, già condannati a morte.

Si chiama Xiaodai Muyi e per lui si è mossa tutta l’organizzazione dell’evento norvegese. E’ un candidato clandestino però, eletto segretamente come il gay più bello della Cina dagli altri concorrenti al concorso nazionale che non si è potuto celebrare. Tutto era infatti pronto qualche settimana fa al Lan Club, uno dei locali più esclusivi della Capitale, su Jianguomenwai, la strada che rotola fino alla grandezza della Tian’anmen. Un evento che aveva avuto la sua risonanza nazionale e non solo: anche per questo, forse, fu bloccato dalla polizia. Si disse che c’era un problema legato a permessi, ma tutti capirono che in ballo c’era un argomento un po’ troppo sensibile. Non che in Cina ci siano politiche anti omosessuali, ma è pur vero che fino al 1997 l’omosessualità era considerata una malattia mentale.

L’avventura clandestina
Così al termine dell’intervento della polizia, gli ufficiali erano stati chiari: niente scherzi, nessuno esce dal paese. Alla notizia invece del viaggio avvenuto, da Oslo hanno tirato un sospiro di sollievo: la Cina, già inserita nel cartellone dei partecipanti, ci sarà: «è molto coraggioso da parte sua prendersi il rischio di lasciare il paese per partecipare ad un evento per il quale le autorità cinesi sono ostili», ha  detto da Oslo Aasheim, uno degli organizzatori, «a Pechino, tutti i candidati erano stati raccolti in una stanza e la polizia aveva chiaramente fatto intendere che non voleva la partecipazione cinese al concorso mondiale». Invece il cinese ci sarà e ironia della sorte sarà uno smacco per Pechino: a rappresentare gli uomini cinesi, uno Hui, una delle minoranze etniche della regione più vessata dal governo centrale.

Ne ha parlato perfino il Quotidiano del Popolo, che ha dimostrato di sapere incassare con una certa signorilità. In un articolo freddo quanto le notti pechinesi, ha riportato una frase del giovane ragazzo: «è difficile essere gay in Cina, ancora di più in una regione come il Xinjiang, perché è contro la religione musulmana». Come dire: meglio considerarsi cinese. E infatti  Xiaodai Muyi ha specificato: «rappresenterò tutti i cinesi, anche gli han, non solo la mia etnia».

Soddisfatto anche Ben Zhang, simpatico e iperattivo organizzatore del concorso mancato: «dopo il fallimento del concorso pensavamo che il nostro tentativo di aprire la Cina a certi discorsi fosse di nuovo tramontato. La possibilità di inviare un nostro concorrente in Norvegia, testimonia invece un messaggio al mondo circa la possibilità della Cina di poter produrre un proprio candidato». Tutto pronto quindi e tra oggi e domani a Oslo si deciderà quale tra i 31 candidati da ogni parte del mondo diventerà Mr World Gay. Lo scorso anno vinse un irlandese: chissà che tutta questa vicenda non finisca per favorire il cinese Xiaodai.

Precedenti e statistiche
Un precedente, nel mondo gay, era avvenuto non troppo tempo fa. A inizio dicembre infatti, nella giornata mondiale contro l’Aids, a Dalì, Yunnan, il governo aveva deciso di finanziare un club gay con 12 mila euro. Sembrava un segnale di apertura rispetto ad un problema, i morti di aids, spesso occultato. Secondo il fondatore Zhang Jianbo, medico all’Ospedale del Popolo di Dalì, l’attenzione mediatica suscitata dall’evento, avrebbe però reso poco agevole un’apertura. Non a caso il bar non venne aperto, salvo iniziare le proprie attività successivamente. La vicenda aveva creato polemiche all’interno del mondo omosessuale cinese. In molti ritenevano che il luogo potesse diventare un ghetto, così come veniva rifiutato e contestato l’assioma aids- omosessualità.

Recentemente il Global Times ha riportato uno studio del gruppo Common Language, organizzazione di sostegno per gli omosessuali, realizzato con interviste a 500 persone in otto città. I risultati hanno indicato che circa il 50% delle lesbiche cinesi hanno subito violenza domestica da parte delle proprie famiglie. Ciò include l’abuso fisico o psicologico, o essere costrette ad avere rapporti sessuali. La relazione indica inoltre che il 50% delle persone colpite preferiscono chiedere aiuto ad amici piuttosto che alle istituzioni sociali. Nel frattempo, Zeng Anquan 45 anni e Pan Wenjie, 27, hanno annunciato la loro relazione lo scorso novembre a Chengdu, nella provincia del Sichuan. Da allora, hanno detto, sono stati respinti da amici e familiari.
Zhang Beichuan, professore dell’Università Qingdao ed esperto di omosessualità, ha detto al China Daily che la Cina ha circa 30 milioni di omosessuali. Di questi, 20 milioni sono uomini e 10 sono donne. Secondo il suo studio, sulla base di indagini su un campione di 1.259 persone, l’8,7% sarebbe stato licenziato o costretto alle dimissioni dopo aver rivelato il proprio orientamento sessuale. Il 62% avrebbe tenuto segreta la propria omosessualità nei luoghi di lavoro.

Compagno o gay?
Tóng zhì è l’espressione con cui Sun Yat-Sen, padre della patria cinese, si rivolse per la prima volta ai propri collaboratori, chiamandoli compagni. Letteralmente la parola significa persone con lo stesso spirito, le stesse ambizioni. Ironia della sorte, con il tempo tóngzhì è ormai diventato sinonimo di omosessuale, abbreviando il termine tóngxìnglían, ovvero persone dello stesso sesso, meno colloquiale ma usato per indicare gli omosessuali. Tóng zhì fu utilizzato per la prima volta, guarda caso, nel 1989 in occasione di un concorso internazionale di cinema gay lesbo a Hong Kong.

E’ interessante a questo proposito lo studio semantico effettuato da un professore di Hong Kong, Chou Wah Shan nel suo libro intitolato Tongzhi: politic of same sex eroticism in Chinese society, ricorda come la connotazione più sessuale data al carattere xìng, sia solo recente. Xìng è infatti un antico carattere cinese, fondamentale, usato per indicare un concetto di natura, tanto che nel dizionario ufficiale cinese veniva spiegato come la natura delle cose. L’influenza occidentale ha finito poi per contrassegnare alcune parole più neutre, con un chiaro riferimento sessuale.

La sessuologa attivista
Li Yinhe è forse la sociologa e sessuologa cinese più nota. Oltre ad avere effettuato studi sui cambiamenti e le dinamiche dei comportamenti sessuali cinesi nel corso della storia, può essere considerata anche un’attivista dei diritti omosessuali in Cina, avendo proposto per ben tre volte alla Commissione Nazionale della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CPPCC) una regolamentazione dei matrimoni omosessuali. Li Yinhe ci permette di avere una visione d’insieme delle problematiche legate all’argomento: «nel corso della storia – ci racconta – c’è stato un cambiamento graduale, in tre periodi in particolare: anticamente i cinesi pensavano che il sesso fosse naturale, buono per la salute, per la famiglia, per la vita, poi durante alcune dinastie, come quella Ming, qualcosa cambiò e il sesso divenne negativo, oscuro, qualcosa di cui non parlare. Crebbero valori come la verginità e si identificò nelle donne esemplari, come le vedove che non si risposavano, ma accudivano le famiglie, le figure simbolo. Negli ultimi 30 anni la gente ha ricominciato a considerare il sesso in modo più positivo. Più in generale direi che la gente pensa oggi che il sesso sia un diritto individuale».

Alla domanda circa le discriminazioni di genere, la sua risposta è netta: «la discriminazione esiste solo nella mente delle persone». Chissà se un cinese Mr World Gay, aiuterà.

[Pubblicato su Il Manifesto il 14 febbraio 2010]