Il bullismo globale della Cina su Taiwan piega anche le multinazionali

In Asia Orientale, Cina, Economia, Politica e Società by Simone Pieranni

L’ultima in ordine di tempo è stata Air India: sul proprio sito la destinazione “Taiwan” è diventata “Chinese Taipei”; pare che la decisione sia stata presa nei giorni durante l’incontro tra Modi e Xi Jinping ad aprile. E come Air India tante altre compagnie aeree o multinazionalihanno deciso di sottostare alle richieste cinesi riguardo Taiwan.

La nota marca Muji, ad esempio, a Shanghai è stata multata di 30mila dollari perché in alcuni dei suoi prodotti era indicata come origine geografica Taiwan. Prima ancora era stata la volta dell’hotel Marriot International: il suo sito internet è stato bloccato per una settimana perché Taiwan — come Tibet, Macao e Hong Kong — erano considerati Paesi separati dalla Cina in alcuni questionari.

Perché sta succedendo tutto questo? Perché Pechino ha effettuato una esplicita richiesta a tutte le aziende che operano in Cina di sottostare alle leggi e non urtare il sentimento cinese. Poiché Taiwan, dove si rifugiarono nel 1949 i nazionalisti di Chang Kai-shek sconfitti dal partito comunista, è da allora considerata una provincia che prima o poi la Cina si riprenderà, Pechino non ammette il suo riconoscimento come Stato da parte di nessun altro Paese.

Le cose, naturalmente, sono cambiate molto negli ultimi tempi (complice — secondo alcuni report — anche il sistema di crediti sociali cinese): fino al 1971, ad esempio, moltissimi Paesi riconoscevano ufficialmente Taiwan proprio in contrasto con la Cina comunista. Ma da quando il Celeste Impero è la seconda potenza del mondo non pochi sono gli Stati che hanno abbandonato il coraggio diplomatico per entrare nella schiera degli adoranti di Pechino.

E non poco, naturalmente, hanno influito le vicende politiche locali dell’isola. Dal 2000 al 2008, con la guida democratica e fortemente indipendentista, Taiwan ha vissuto un momento molto duro nelle relazioni con la “Cina continentale”: solo dal 2008, infatti, esistono voli aerei diretti tra Cina e Taiwan; prima i tanti taiwanesi che lavorano in Cina, specie nelle regioni costiere orientali, per tornare a casa dalle proprie famiglie dovevano andare a Hong Kong e poi da lì a Taiwan.

L’argomento è particolarmente delicato anche perché spesso le reazioni della Cina sono spropositate: quando Donald Trump venne eletto alla presidenza degli Stati Uniti provò subito a stuzzicare Pechino, chiamando l’attuale presidente dell’isola. Uno smacco per la Cina che da sempre difende l’idea di “una sola Cina” (non senza contraddizioni, visto che nei suoi aeroporti i voli per Taiwan si trovano nelle partenze internazionali).

Dal 2008 in ogni caso i rapporti tra Cina e Taiwan sembravano essere in ripresa: il ritorno al governo dei conservatori e filo cinesi aveva portato anche alla firma di un trattato commerciale che secondo molti commentatori sarebbe stato nel futuro una sorta di cappio al collo cinese per l’economia dell’isola. Ma Pechino aveva compreso che il suo nuovo ruolo nell’economia mondiale sarebbe stato sempre più rilevante e parvero comprenderlo anche i politici taiwanesi che sposarono una diplomazia molto meno rischiosa per la Cina, perfino su argomenti spinosi come le isole contese.

Poi però le relazioni sono tornate tempestose, fino all’elezione di Tsai Ing-wen come presidente nel 2016. La nuova leader Tsai non ha ufficialmente accettato la politica di “una sola Cina”, come da accordo del 1992, ma dicendo che riguardo la Cina è intenzionata a «mantenere lo status quo» non ha fatto altro che accontentare Pechino, perché significa dimenticare ogni istanza indipendentista dell’isola. E proprio Tsai in occasione di un terremoto del febbraio scorso ha fatto un tweet in caratteri cinesi semplificati, un evento rilevante considerato che a Taiwan si scrive in cinese tradizionale, vanto e orgoglio degli abitanti che si considerano “i veri cinesi”.

Di recente però la Cina è tornata nazionalista e i recenti suggerimenti ai governi e alle aziende straniere hanno provocato quotidiani scivoloni: dalla compagnia aerea giapponese, alle catene di alberghi non si contano le aziende che accettano i diktat di Pechino.

Il resto del mondo come al solito tace, per le stesse ragioni. Pensiamo al Dalai Lama, completamente sparito dalla circolazione e dagli incontri ufficiali per paura di provocare il gigante cinese: a quanto pare le aziende non fanno altro che adeguarsi al bullismo internazionale della Cina. E per ora si adeguano nel completo silenzio della comunità internazionale che messa alle strette, è probabile si adeguerebbe allo stesso modo.

 

[Pubblicato su Eastwest]