Green supply chains: da fabbrica del mondo a rivoluzione verde

In Dialoghi: Confucio e China Files by Sabrina Moles

Materie prime, lavorazione, componenti piccoli che vengono assemblati per diventare componenti più complessi. E poi il prodotto finito. Anzi, e poi la spedizione, lo stoccaggio in magazzino, l’arrivo in un negozio fisico o digitale. Lo smartphone o il cellulare che stai utilizzando per leggere questo articolo è frutto di tutto questo, un processo complesso e articolato che molto probabilmente è iniziato dall’altra parte del mondo. Con il termine supply chain intendiamo, infatti, una rete di relazioni e compiti che porta il prodotto finito al consumatore, la filiera che a un certo punto ha permesso che tu possa vedere questa pagina web.

Nel mondo di oggi gli obiettivi delle aziende si stanno lentamente spostando verso pratiche considerate più “sostenibili”, non solo in termini di impatto ambientale ma anche sociale ed economico. In un contesto globalizzato, come quello in cui siamo immersi, diventa inevitabile considerare la rivoluzione verde della filiera produttiva uno dei processi più urgenti e importanti. Questo atteggiamento si traduce in una serie di richieste da parte delle compagnie partner o dei governi, che vanno da processi produttivi meno inquinanti alla pianificazione attenta delle spedizioni per evitare sprechi e inefficienze.

L’industria e la distribuzione dei prodotti industriali sono due dei settori più impattanti a livello ambientale, sia in termini di consumo energetico che come output in termini di scarti e di elementi accessori a breve vita (si pensi ad esempio al packaging). Per questo motivo diventa imperativo lavorare su un approccio diverso all’approvvigionamento di materie prime, su fonti energetiche pulite, ridurre la produzione di rifiuti e di emissioni, migliorare il trattamento e la bonifica delle materie scartate e molto altro.

Rivoluzione verde nella “fabbrica del mondo”

La Cina ha un ruolo di primo piano nella definizione e nell’applicazione di questi standard. Dopo quarant’anni da “fabbrica del mondo”, Pechino ora deve fare i conti con l’impatto ambientale della crescita economica infinita a buon prezzo, rendendo necessario un cambio di paradigma. Il commercio internazionale rimane, di fatto, un pilastro dell’economia della Repubblica Popolare, che controlla da sola il 10% dell’export globale. L’ecosistema, inquinato e sfruttato da decenni di economia rampante, inizia a chiedere il conto alla dirigenza cinese. Diventa quindi imperativo per Pechino evolvere la propria posizione sui mercati internazionali, coerente con il percorso di sviluppo più attento alla qualità di vita dei suoi cittadini.

Alla ricerca di qualità di stampo “green” del consumatore contemporaneo fa da contraltare la pressione dei legislatori, stimolati dagli accordi internazionali e incentivati dalla consapevolezza dell’impatto di un ambiente malsano su economia e salute. Questo significa che le aziende che hanno un maggiore impatto ambientale e non fanno nulla per ridurlo (o compensarlo) rischiano sempre di più di finire nel mirino delle autorità, che possono decidere di sanzionarle o ostacolarne inserimento sui mercati. Un esempio è la pressione fiscale (tasse, mercato delle emissioni avviato nel 2021) che costringe le aziende meno virtuose ad alzare i prezzi per tenere in piedi l’attività.

L’ambiente ha una forte influenza nel determinare l’accesso alle materie prime e alle fonti energetiche. Lavorare a una gestione sostenibile delle filiere internazionali significa quindi, per la Cina, anticipare la risposta alle emergenze che potrebbero diventare più frequenti in futuro. Un esempio lampante è la crisi energetica dell’autunno 2021, che nasce dall’adattamento ancora incerto alle restrizioni sul carbone. Anche i fenomeni climatici estremi che penalizzano le infrastrutture fanno parte dell’equazione, rendendo necessario trovare soluzioni per non aggravare gli effetti del cambiamento climatico sull’economia. In poche parole, la scarsità determinata dalle condizioni ambientali alza i costi operativi lungo la filiera che, nel contesto di un business internazionale, fanno la differenza tra la crescita il fallimento.

A che punto siamo in Cina

Con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001 i traffici internazionali da e per la Repubblica Popolare sono diventati ancora più intensi. Ma è anche migliorato l’aspetto di tutela e controllo della filiera globale, dove Pechino rimane l’attore più importante. Al di fuori delle pressioni in seno ai grandi accordi internazionali (come gli obbiettivi climatici dell’Accordo di Parigi), la Cina è uno dei paesi più avanzati a livello normativo nel campo della sostenibilità ambientale. Ciò comprende una serie di standard e pratiche che puntano a rendere il settore produttivo meno impattante, sia tramite incentivi fiscali che attraverso controlli e restrizioni. Dall’altro lato dello spettro anche le aziende hanno aumentato la propria consapevolezza ambientale, che però si deve ancora tradurre in una vera pratica di gestione sostenibile della filiera. La cooperazione tra imprese in questo campo sta contribuendo molto a ottimizzare e innovare la supply chain, per esempio introducendo pratiche di economia circolare (ridurre, riutilizzare, riciclare).

La pandemia ha ulteriormente spinto il Governo cinese e le aziende a ricercare strategie più attente e sicure nei confronti della supply chain, spesso molto più certosine di quanto accada all’interno del mercato libero europeo. In nome della sostenibilità, come emerge dal caso della Cina, andrà rivoluzionato il ruolo della tecnologia in supporto alla gestione della filiera, e dovranno essere elaborate strategie alternative per attutire gli impatti di future crisi, in particolare energetiche e sanitarie. Un compito complesso che non spetta solo a Pechino, ma in cui la Repubblica Popolare può fare la differenza.