Grande gioco senza fine

In by Gabriele Battaglia

Nel grande risiko d’Asia, la Mongolia doveva essere la "talpa" americana. Dati i suoi sforzi tesi alle riforme democratiche e la sua rivalità con Pechino, infatti, Ulan Bator era stata individuata da Washington come nuova alleata asiatica per isolare la Cina. Solo che in Mongolia non la vedono proprio così. L’agente Usa in Asia nord-orientale fa il doppio gioco, anzi il triplo. Secondo The Diplomat, la Mongolia, già data come alleato stretto di Washington e punto fermo di un enorme cerchio strategico che circonda la Cina, sarebbe ben lungi da offrire garanzie agli americani.

Gli interessi di Ulan Bator, detto altrimenti, non coincidono necessariamente con quelli dello zio Sam. Ed è da escludersi che, in caso di conflitto nell’area, gli eredi di Gengis Khan galoppino al fianco dei marines.

Ricapitoliamo. La presenza militare Usa disegna un enorme semicerchio attorno alla Cina che va dal Kirghizistan al Giappone. Negli ultimi anni, una fitta attività diplomatica, il moltiplicarsi di esercitazioni militari congiunte tra Washington e Ulan Bator e la presenza di soldati mongoli al fianco di quelli statunitensi anche in Iraq e Afghanistan, hanno fatto pensare che il cerchio si chiudesse definitivamente attorno alla Cina: la Mongolia entra nell’orbita Usa.

È la cosiddetta politica del “terzo vicino” che sostituisce l’antica dipendenza di Ulan Bator da Russia e Cina, quando la Mongolia era uno Stato cuscinetto, di fatto controllato da Mosca, tra i due colossi.

Washington da parte sua versa miliardi di dollari nei forzieri dello Stato mongolo e il vicepresidente Joe Biden è volato poco più di un anno fa a Ulan Bator per compiacersi pubblicamente dei progressi democratici del Paese: “Siete dei nostri”.

Con la Cina, la Mongolia ha invece tradizionalmente un rapporto conflittuale. Pesano fattori storici e culturali, certo, ma di recente aleggia soprattutto lo spettro di un neocolonialismo economico fatto di forti investimenti cinesi finalizzati ad accaparrarsi le risorse minerali mongole (soprattutto oro, uranio, rame, carbone) unica ricchezza del Paese insieme al turismo.

Non lo fanno solo i cinesi, certo, lo fanno tutti. Ma i cinesi sono lì che premono. Sono la popolazione più numerosa della terra, mentre i mongoli sono solo tre milioni; così pochi che in Cina vive una minoranza mongola più grande della “maggioranza” che vive a casa sua, ma che con il potere centrale di Pechino e con gli han ha sempre qualche problema.

Così, in una terra in cui il sessanta per cento della popolazione ha meno di trent’anni, si esprime la propria frustrazione con l’hip hop, genere che, secondo i suoi adepti, sarebbe la diretta filiazione dei canti sciamanici tradizionali.

Qualche anno fa, mezza Ulan Bator canticchiava un pezzo dei 4 Zug, l’equivalente locale dei gangsta rapper Usa: “Noi mongoli, che siamo diventati uomini seguendo i principi degli uomini, ci faremo umiliare da questi cinesi di merda? Chiama i cinesi, chiamali, chiamali, chiamali. E sparagli a tutti, tutti, tutti”. Si intitolava Buu Davar Hujaa Naraa (“Non superate i limiti, cinesi”).

Dati questi presupposti, la diplomazia Usa dormiva sonni tranquilli. Niente di più sbagliato – avverte il docente di studi strategici Jeffrey Reeves dalle pagine di The Diplomat . Sarà anche per paura dell’ingombrante vicino, ma da almeno quindici anni il rapporto con la Cina è la priorità in politica estera per la Mongolia mentre la relazione con gli Usa è stata tutto sommato sopravvalutata.

Il punto è che la politica del “terzo vicino” si è rivelata inadatta a contenere proprio la Cina. Meglio quindi rapportarsi direttamente con Pechino, alla ricerca non conflittuale di obiettivi comuni. Così, Ulan Bator ha scelto per esempio di limitare la quantità di investimenti diretti stranieri in terra mongola, così come l’acquisto di asset strategici. Misure che rivelano autonomia di movimento e che, soprattutto, non concedono preferenze a nessuno: neanche al grande protettore al di di à del mare.

Dal punto di vista militare, poi, la collaborazione con Cina, Russia e India ha proceduto parallelamente a quella con gli Usa. La Mongolia ha status di osservatore nella Shanghai Cooperation Organization, la “Nato dell’Est” che ruota attorno a Mosca e Pechino.

Soldati russi, cinesi e mongoli hanno già compiuto esercitazioni congiunte antiterrorismo e di pattugliamento alle frontiere. Fatto forse più significativo, un documento ufficiale di Ulan Bator (Concetti di sicurezza nazionale e politica estera) stabilisce che nessun esercito straniero possa utilizzare il suolo mongolo per qualsivoglia operazione militare: in caso di guerra made in Washington, niente marines nelle steppe, insomma.

Per compiacere la Casa Bianca, la Mongolia non ha nessuna intenzione di farsi incastrare nella scomoda posizione della sottiletta nel sandwitch russo-cinese. In caso di conflitto nell’area, Ulan Bator si ritaglierebbe quindi un ruolo da Paese neutrale .

Ultima scoperta, ma non per questo meno importante, è che la Mongolia non sarebbe poi così “dei nostri” come nei sogni di Joe Biden. Il processo democratico è tutt’altro che realizzato e irreversibile perché la stessa idea di democrazia non appartiene alla tradizione mongola.

È un mezzo più che un fine, serve a ottenere risultati concreti in termini di crescita, ricchezza diffusa, welfare, sicurezza. Ma dato che nei suoi pochi anni di vita, la democrazia mongola si è già trasformata in una cleptocrazia che accomuna i politici di entrambi i maggiori partiti, e che lo Stato di diritto è spesso e volentieri sostituito dalla legge del più forte, c’è già chi guarda con curiosità a Singapore, Russia e Cina come modelli politici alternativi.

Il Khan fa il proprio gioco, non quello dello zio Sam.

[foto credits:eyeofobserver.com]

*Gabriele Battaglia e’ stato corrispondente da Pechino per PeaceReporter ed E-il mensile. Ha cominciato come web-giornalista e si e’ misurato poi con diversi media e piattaforme. In una vita precedente, e’ stato redattore di Virgilio.it e collaboratore di un certo numero di testate sui piu’ disparati temi: dalla cultura alla divulgazione scientifica, passando dai trattori e dalle fotogallery su Britney Spears. E’ autore, con Claudia Pozzoli, del webdocumentario "Inside Beijing". Oltre che la Cina e l’Oriente in genere, gli piace l’Artico, sia per interesse giornalistico sia per il clima. Non ha ne’ l’automobile ne’ la Tv e ogni tanto si fa male cadendo in bicicletta. Vive tra Pechino e Milano.