Gli effetti economici e sociali delle monoculture di soia

In Cina, Economia, Politica e Società by Redazione

Idfa (International Documentary Film Festival Amsterdam) è il festival e il mercato più importante in Europa per il documentario. Essere selezionati ad Idfa è un onore: in un periodo nel quale l’orgoglio italico viene sbandierato ovunque, ci si tende a dimenticare di alcuni registi eroi, persone che a loro modo ce l’hanno fatta.

Produrre e realizzare un documentario su quattro continenti, Cina, America, Mozambico e Brasile, è un’impresa molto complessa, a volte impossibile, in Italia. “Soyalism” è stato scritto diretto e girato da Stefano Liberti e da Enrico Parenti e selezionato ad Idfa. È un lungometraggio il cui scopo è far luce sulle monoculture di soia e sul loro effetto sull’ambiente e sull’economia a livello locale e globale.

La Cina è naturalmente grande protagonista: la terra di mezzo – infatti – si posiziona in uno dei primi posti nella filiera della produzione intensiva di carne, grazie alle sue multinazionali che operano negli Stati Uniti. Contemporaneamente importa soya dal Brasile, alimento ormai utilizzato all’80% per l’alimentazione dei suini. A farne le spese sono le economie locali e l’ambiente che viene irrimediabilmente influenzato dal settore – discusso – dell’agrobusiness.

Abbiamo parlato con i registi di Soyalism per saperne di più:

Si è appena conclusa la proiezione di Soyalism ad Idfa, com’è stata la reazione del pubblico e riscontro avete avuto dalla stampa e da altri vostri colleghi?

“Ad Idfa è andata molto bene, le sale erano pienissime e abbiamo avuto dei dibattiti lunghi e partecipati dopo ogni proiezione. Questa ci ha confermato che il tema affrontato dal film è di interesse per il grande pubblico, perché alla fine dei conti riguarda tutti noi e il nostro futuro”.

Nonostante gli sforzi del governo cinese per cercare di risolvere i tanti problemi ambientali, l’utilizzo delle monoculture è pratica comune, anche in Cina. Puoi raccontarci qualcosa in più?

“È vero, anche la Cina punta alle monocolture, perché purtroppo sono il modo più efficiente per produrre grandi quantità di cibo in poco spazio e la Cina, nonostante le sue dimensioni, non ha abbastanza terreni rispetto alla crescente domanda interna. Alcuni agronomi sostengono che concentrando i danni ecologici solo nello spazio delle monoculture e non in migliaia di terreni sparsi, si possano controllare meglio le pratiche agricole e concentrare l’inquinamento in un solo luogo”.

“Ma una cosa è certa: le monocolture tolgono lavoro ai contadini perché richiedono pochissima manodopera ed in genere utilizzano enormi quantità di fertilizzanti e pesticidi. C’è poi un altro elemento, che possiamo definire schizofrenico, la Cina promuove e finanzia la produzione di mais, cereale originario delle Americhe, mentre importa dal Brasile e dall’Argentina la soya, un legume originariamente nato proprio in Cina. Queste sono le schizofrenie derivate dal mercato”.

“La Cina, inoltre, sta sposando un modello agricolo iper-produttivista basato su monoculture industriali. Provocando un esodo rurale significativo e un affollamento nei centri urbani, con non indifferenti tensioni sociali. Va detto che la Cina fino a oggi è riuscita a raggiungere l’obiettivo di sfamare la sua enorme popolazione con una disponibilità di terra piuttosto limitata: parliamo del 20 per cento della popolazione mondiale sul 9 per cento delle terre arabili”.

“È anche per questo che il governo cinese ha di fatto deciso di esternalizzare la produzione di soia in Sud America. Ha spinto i produttori rurali a coltivare mais e ha cominciato a importare milioni di tonnellate di soia per i mangimi animali principalmente da Brasile e Argentina – oltre che dagli Stati Uniti, prima che cominciasse la guerra dei dazi con l’amministrazione Trump”.

Stefano Liberti cosa hai tratto dal tuo libro “I signori del cibo” ed lo hai utilizzato in Soyalism e com’è nata la collaborazione con Enrico?

“Soyalism non è un adattamento del libro, che più in generale tratta del funzionamento del sistema alimentare globale. E’ un progetto diverso, che ha avuto anche una genesi più lunga e articolata. Con Enrico ne parlavamo fin dal 2012. Ci siamo conosciuti proprio a partire da alcune sollecitazioni e curiosità comuni e abbiamo cominciato a studiare la possibilità di fare un documentario insieme su queste tematiche”.

“Abbiamo studiato la questione insieme e poi cercato i fondi per realizzarlo. Diciamo che i percorsi del libro e del film si sono intersecati a livello produttivo, perché i finanziamenti dati da alcuni partner, in particolare la Fondazione Charlemagne, hanno permesso di portare avanti i due progetti contemporaneamente”.

Quali sono le differenze tra un’inchiesta giornalistica su carta e un documentario? Dove deve fare leva lo storytelling nelle diverse modalità di narrazione?

“In un’inchiesta giornalistica su carta devi dare forma alle persone e ai luoghi attraverso la parola. L’impatto è ovviamente meno immediato e potente dell’immagine. Lo storytelling deve quindi far vedere quello che stai raccontando, cosa che una narrazione filmica fa da sé. Per quanto uno possa scrivere in modo meraviglioso, è difficile che la parola scritta sia più forte dell’immagine”.

“In compenso, l’inchiesta scritta ti permette di inserire dati a ragionamenti che in un film risulterebbero pesanti e noiosi, quindi di andare più nel profondo di alcune tematiche. Si tratta di due media e di due tipi di narrazione profondamente diversi, che bisogna quindi declinare in modo diverso. Una cosa in voga negli ultimi tempi – anche io personalmente ho cominciato a sperimentarlo su alcune inchieste – è un approccio cross-mediale, in cui un testo si intreccia con filmati, animazioni, grafici, in modo da sfruttare le potenzialità di ogni medium. Sono lavori cross-mediali che si stanno diffondendo sul web, ancora in una fase per così dire embrionale, che possono però rappresentare il futuro del giornalismo d’inchiesta”.

Enrico Parenti, cosa ti ha affascinato del progetto? Qual’è stato il tuo apporto nella scrittura e nella regia? 

“Soyalism è stato scritto a quattro mani da me e da Stefano. Sono molto affascinato dai grandi temi della globalizzazione e delle politiche di sicurezza alimentare. Ho approfondito la grande carestia cinese che portò alla morte di quasi trentasei milioni di persone solo cinquanta anni fa. Inizialmente pensavamo di intervistare le corporation che stanno incentrando il potere di produzione e distribuzione di cibo e che saranno pronti a sfruttare economicamente la popolazione dei prossimi 30 anni, ossia anche quei tre miliardi di esseri umani in più che vivranno sulla terra nel 2050”.

“Poi ci siamo accorti che poteva diventare un documentario fazioso basato su supposizioni e speculazioni, quindi abbiamo virato su uno dei più grandi problemi che affligge oggi l’economia del cibo: l’aumento del consumo di cibi di “lusso”, ossia di cibi che hanno bisogno di molta energia per essere prodotti nei paesi in via di sviluppo e le loro conseguenze sull’ambiente”.

Come emerge dal vostro racconto sono molti anche i gruppi ambientalisti che denunciano il problema delle monoculture. Potete raccontarci cosa più vi ha colpito del loro lavoro? Avete trovato o pensato di inserire anche dei gruppi ambientalisti cinesi? Se no, perché?

“Abbiamo visto gruppi ambientalisti un po’ in tutti i luoghi toccati dal documentario: dagli Stati Uniti al Brasile al Mozambico. In tutti abbiamo riscontrato una profonda conoscenza dei meccanismi globali di funzionamento dell’agrobusiness e una notevole preparazione. Ovviamente con le differenze caso per caso: il movimento dei Sem Terra in Brasile ha una storia quasi quarantennale di lotta per la terra, in Mozambico i movimenti sono più giovani ma non meno battaglieri”.

“Quanto alla Cina, abbiamo contattato anche lì una serie di attivisti e ambientalisti ma con minore successo. La società civile ha più difficoltà a esprimersi liberamente e questa probabilmente è stata una delle ragioni alla base di una serie di cortesi rifiuti che abbiamo ricevuto”.

Dal vostro documentario la multinazionale cinese WH Group,  e il suo modello economico e finanziario, sta generando un circolo vizioso efferato, avete provato a confrontarvi direttamente con loro su quanto dichiarano anche dal loro sito ufficiale?

“Abbiamo contattato WH Group e siamo andati a visitare la loro sede a Luohe, nell’Henan. I loro manager sono stati molto disponibili. Ci hanno fatto visitare i luoghi di produzione, i mattatoi e hanno passato una giornata con noi. Nel film non abbiamo messo questa parte perché diventava un po’ ridondante rispetto agli altri allevamenti/mattatoi visitati in Cina che avevamo potuto riprendere più da vicino”.

Cosa vi ha colpito mentre eravate a girare in Cina? Rispetto alle fabbriche/allevamenti che avete visitato o rispetto alle persone che avete intervistato?

“In Cina la cosa più sorprendente per noi è stato avere accesso in modo piuttosto semplice alle grandi produzioni industriali, ad allevamenti/mattatoi/impianti di lavorazione e confezionamento. La stessa cosa non siamo riusciti a farla negli Stati Uniti, dove l’industria della carne è molto chiusa ai media. Probabilmente la ragione di questa apertura è che il processo di industrializzazione del settore è relativamente recente in Cina e in qualche modo i cinesi sono orgogliosi e desiderosi di mostrare all’esterno i risultati raggiunti negli ultimi anni”.

Da un punto di vista produttivo non è sempre semplice per i documentari, potete raccontarci come siete riusciti a finanziare un progetto così dettagliato tra Cina, Brasile, Mozambico e Usa?

“Il processo produttivo è stato lungo e accidentato. Abbiamo costruito il documentario come un work in progress, cercando i fondi man mano che lo facevamo e compivamo i diversi viaggi. Alcuni partner hanno creduto nel progetto e ci hanno permesso di portarlo a compimento: fra questi, oltre alla Fondazione Charlemagne citata prima, il Pulitzer center on crisis reporting, la Fondazione Nando ed Elsa Peretti, Itas Mutua e le organizzazioni Terra! onlus e Altromercato. Insieme ai produttori veri e propri – Albamada e Elliot Film – questi soggetti sono quelli che hanno sostenuto finanziariamente il documentario permettendone la realizzazione”.

Di Desirée Marianini

Laureata in Lingue e Civiltà Orientali alla Sapienza di Roma, si specializza in regia e sviluppo progetti alla ZeLIG School for Documentary, Television and New Media di Bolzano. Tramite il Programma di borse di studio del governo cinese (CGSP) studia all’Università di Pechino e alla Central China Normal University di Wuhan. Nel 2008 entra nello staff di Viva Group, agenzia per l’organizzazione di eventi e comunicazione, dal 2010 al 2013 lavora per China Files, nell’ideazione e la produzione dei prodotti audiovisivi dell’agenzia, e co-gestisce Caratteri Cinesi, sito di traduzione dalla blogosfera cinese. Tornata in Italia fonda same same factory, associazione culturale focalizzata in workshop.

[Pubblicato su Agi]