L’onda lunga degli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre è arrivata fino a Tokyo. E ora l’esecutivo guidato da Shinzo Abe si prepara a rafforzare le misure antiterrorismo dopo gli impegni presi al recente G20 di Antalya, in Turchia. Più cooperazione con la comunità internazionale per fermare il terrorismo e proteggere le vite dei cittadini giapponesi: sono queste le due priorità che hanno spinto la leadership del Partito liberaldemocratico giapponese, formazione politica al governo da fine 2012, ad annunciare la presentazione di una nuova legge sulla cospirazione nel corso della prossima sessione parlamentare.
La legge punirebbe non solo i complici o gli esecutori di un crimine, ma anche coloro che vengono intercettati mentre parlano della sua organizzazione.
“L’anno prossimo in Giappone si terrà un summit internazionale, una situazione in cui valutare con cautela adeguate misure antiterrorismo”, ha spiegato Sadakazu Tanigaki, segretario generale del partito di maggioranza durante una conferenza stampa a Tokyo il 17 novembre scorso.
Il riferimento è al summit del G7 che si terrà a maggio 2016 proprio in Giappone. Ma negli obiettivi del governo c’è anche il rafforzamento delle misure di sicurezza in vista delle Olimpiadi che si terranno nella capitale del Paese del Sol levante nel 2020.
“Senza raccogliere informazioni — ha aggiunto Tanigaki — non abbiamo gli strumenti sufficienti per rispondere [alle minacce]”.
La leadership conservatrice ha così deciso di rispolverare una proposta di legge del 2003 concepita sulla stregua della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, firmata ma non ratificata dal Giappone, che impegnava i paesi firmatari ad adottare, tra le altre, adeguate misure legislative contro il riciclaggio di denaro e ogni forma di “partecipazione, associazione, cospirazione e tentativo di commettere” traffico di denaro sporco.
La bozza di legge, sottoposta tre volte al voto parlamentare, ma mai approvata, mirava ad espandere le capacità di lotta al crimine organizzato attraverso lo strumento delle intercettazioni della corrispondenza o di conversazioni telefoniche tra membri di un’associazione a delinquere. In particolare, esso aveva l’obiettivo di rafforzare gli strumenti di prevenzione di omicidi, truffe e scontri armati per mano dei clan di yakuza, la mafia locale.
A dieci anni di distanza, a fine 2013, la leadership del Partito liberaldemocratico era tornata a ribadire l’importanza dell’introduzione del reato di cospirazione ai fini della lotta al terrorismo. L’occasione era l’approvazione della discussa legge sulla “Protezione dei segreti specifici”, un provvedimento che ha sottoposto al segreto di stato 460 mila documenti in tema di difesa, diplomazia e intelligence e prevede 10 anni di carcere per i giornalisti che pubblichino informazioni sensibili e 5 per chiunque inciti fughe di notizie dai ranghi della burocrazia statale.
Oggi come allora rimangono alcune perplessità; in particolare, per quanto riguarda la tutela della privacy e l’effettiva urgenza di una misura che sembra pensata per rafforzare un sistema di sorveglianza già pervasivo — basti pensare nella sola Tokyo opera il corpo di polizia più grande del mondo, forte di oltre 43mila agenti — e stringere il controllo delle autorità sull’opinione pubblica.
Le opposizioni fanno notare l’estrema difficoltà “di trovare un equilibrio che permetta di gestire una crisi nel modo più consono e al contempo proteggere i diritti delle persone”; mentre dalle pagine del quotidiano Tokyo Shimbun, l’Associazione nazionale degli avvocati fa critica l’idea dell’esecutivo: “Proporre il reato di cospirazione come misura antiterrorismo è una distorsione interpretativa notevole”.