Giappone, l’obbligo dello stesso cognome per gli sposati è «costituzionale»

In by Gabriele Battaglia

Il 16 dicembre scorso, la Corte suprema giapponese ha confermato la costituzionalità di un articolo del codice civile che impone alle coppie sposate di assumere lo stesso cognome. Una legge che risale alla fine del 1800 e che per molte donne ignora i loro diritti. A partire dalla scelta del proprio nome.  «Non potrò nemmeno morire con il mio proprio nome». Versa qualche lacrima Kyoko Tsukamoto, 80 anni, poche ore dopo che la Corte suprema del Giappone ha confermato la “costituzionalità” di un articolo del codice civile che obbliga due persone unite da matrimonio ad avere lo stesso cognome.

Tsukamoto è una delle cinque donne che a febbraio 2011 avevano presentato un’istanza contro lo Stato alla Corte suprema giapponese per violazione della costituzione che sancisce «la libertà di matrimonio». Nel ricorso, le donne chiedevano inoltre allo stato un risarcimento di 6 milioni di yen (poco più di 45,5 mila euro) per danni morali e psicologici, causati dall’impossibilità di usare il proprio cognome da nubili nella vita di tutti i giorni: sui documenti d’identità, sul conto bancario, al momento dell’assunzione in un’azienda quello che conta è il nome del registro di famiglia, o koseki.

Cresciuta nella famiglia della madre, dopo che il padre era morto quando lei aveva appena due mesi, Tsukamoto decide di tenere il proprio cognome anche quando arriva il momento del matrimonio. Ricorre a un unione di fatto, una pratica che in Giappone non è legalmente riconosciuta, ma che permette ad ognuno dei membri della coppia di mantenere un registro di famiglia individuale, quindi con il proprio nome, e di gestire il proprio patrimonio in maniera autonoma. Dalla relazione con il compagno nascono tre figli.

Per evitare che a questi venisse affibbiata l’etichetta di «nati fuori dal matrimonio», Tsukamoto inizia un tour de force burocratico richiedendo certificati di matrimonio e, a stretto giro, di divorzio. La situazione — racconta il quotidiano Mainichi Shimbun — rimane la stessa per tredici anni finché il direttore della scuola in cui Tsukamoto lavorava la costringe ad assumere il nome del marito, Ojima. Lo stress accumulato le provoca amenorrea e altri disturbi fisici.

Dopo aver fondato nel 2002 con altre donne l’associazione Nananokai, attiva a favore di una riforma del codice civile che permetta alle donne di scegliere se tenere il proprio cognome o assumere quello del marito. Quattro anni fa, infine, si è unita alla causa contro il governo organizzata da un gruppo di donne, tra i trenta e i quarant’anni, libere professioniste residenti a Tokyo. Il divario di età e di carriera tra loro e Tsukamoto era ampio ma l’obiettivo era comune: più diritti per le donne a partire dall’onomastica.

«Se la sentenza fosse quella che mi aspetto sarei molto felice» — aveva spiegato la donna pochi giorni prima del verdetto dell’alta corte. «Non voglio più che qualcuno debba soffrire come ho sofferto io a causa del nome. Spero che un giorno uomini, donne e bambini possano scegliere liberamente come chiamarsi».

Il più alto organo del sistema giudiziario ha però deciso di rinviare quel momento a data da destinarsi.

Nelle motivazioni della sentenza il giudice presidente Itsuro Terada ha infatti spiegato che l’articolo 750 del codice civile non è di per sé discriminatorio e che eventuali ripercussioni psicologiche citate nel testo del ricorso, possono essere «mitigate», in quanto rimane sempre la possibilità per le donne di usare il nome da nubili nella propria vita quotidiana. L’adozione di un singolo cognome per le coppie sposate, ha spiegato poi Terada, è «profondamente radicato nella cultura giapponese». Una visione che ignora gran parte della storia del paese-arcipelago ma che si riflette nelle pratiche diffuse nella società contemporanea giapponese.

Il provvedimento che impone il cognome unico a chi contrae matrimonio risale infatti alla fine del diciannovesimo secolo, durante la cosiddetta bunmei kaika, la modernizzazione delle istituzioni economiche, giuridiche, politiche e sociali imposta dalla leadership del tempo nel tentativo di colmare il gap di sviluppo con Europa e Stati Uniti e mantenere l’autonomia territoriale.

Studi scientifici pubblicati negli ultimi quarant’anni hanno comunque dimostrato che oltre il 96 per cento delle donne giapponesi opta per assumere il cognome del marito dopo il matrimonio, ma recenti sondaggi rilevano un crescente interesse nella questione da parte delle donne, soprattutto tra le più giovani.

Di recente il quotidiano Asahi Shimbun ha condotto un sondaggio su cosa uomini e donne ritengano importante al momento del matrimonio e della decisione del cognome. I dati raccolti dal quotidiano hanno rivelato che la maggior parte dei rispondenti (in maggioranza donne) considera prioritario il rispetto dell’opinione del partner, risultati che fanno credere che nella società giapponese ci sia una forte corrente di pensiero a favore di una riforma del codice civile che introduca la possibilità di scelta tra l’adozione del cognome unico e il mantenimento dei cognomi di nascita.

Questa eventualità tuttavia suscita preoccupazioni nel campo conservatore. Takanori Tadashi, docente emerito della Heisei International University, a Tokyo, spiega al periodico online J-Cast che se il sistema attualmente in vigore fosse riformato, si andrebbe incontro alla fine dell’«ordine sociale» nonché al «crollo delle basi su cui si fonda il sistema di previdenza sociale giapponese».

Secondo il magazine culturale Litera, ci sarebbe un legame tra la sentenza e le posizioni in materia di famiglia dell’attuale primo ministro giapponese Shinzo Abe. Nel 2010, in un articolo pubblicato in un mensile quando ancora non era in carica, Abe aveva parlato del mantenimento dei cognomi di nascita come di «smantellamento della famiglia» e di «dogma comunista». Parole che rilette a cinque anni di distanza suonano in contraddizione con le politiche sbandierate dall’ attuale amministrazione giapponese impegnata a realizzare una società «in cui le donne possano risplendere».

La decisione della Corte suprema dello scorso 16 dicembre è comunque di portata storica. Un altro controverso provvedimento di legge — quello che impone alle donne il divieto di nuovo matrimonio nei primi sei mesi dopo il divorzio — è stato dichiarato incostituzionale. La reazione da parte del governo di Tokyo è stata immediata: il ministro della giustizia Mitsuhide Iwaki ha infatti annunciato un’ampia revisione del sistema del diritto di famiglia. E qualcuno già spera che possa rientrarvi anche il sistema del koseki

[Foto credit: thetokyonews.net]