Giappone – Abitare nell’Oceano è una buona idea?

In by Gabriele Battaglia

In uno dei paesi con la più alta densità abitativa del mondo e un territorio di origine vulcanica dove i terremoti sono all’ordine del giorno, qualcuno guarda a nuove soluzioni abitative. Un’azienda di infrastrutture propone l’Oceano come prossima colonia umana. A patto che, almeno per il Giappone, si riescano a sciogliere alcuni nodi conflittuali con i paesi vicini. In un paese con scarsa superficie abitabile e continuamente interessato da terremoti – l’ultimo proprio due weekend fa, nel Nord della provincia di Nagano – è normale guardare “altrove” per nuove soluzioni abitative o di lavoro.

La Shimizu Corp. si occupa proprio di questo: progettare sogni.

Non che questa in realtà sia il core business dell’azienda. Shimizu è tra i leader mondiali nella progettazione e costruzione di infrastrutture: suo è ad esempio il ponte, con annesso tunnel, che collega le due sponde della Baia di Tokyo, da Kawasaki a Kisarazu.

Ogni tanto, tuttavia – forse per stupire i vecchi clienti forse per attirare nuovi clienti con un’intelligente strategia di marketing – tira fuori un progetto futuristico – o assurdo, a seconda dei punti di vista.

L’ultimo in ordine di tempo si chiama Ocean Spiral. Si tratta di una colonia di abitazioni ed uffici ancorati sul fondo dell’oceano. Il nome dovrebbe già dire tutto ma, se non lo facesse, ecco alcune immagini riportate sul sito della Shimizu e su alcuni media internazionali negli ultimi giorni.

La colonia ha come suo centro un globo galleggiante sulla superficie del mare collegato da una spirale lunga dai 3 ai 4 chilometri a una piattaforma ancorata al fondale oceanico, una vera e propria centrale per lo sfruttamento e la ricerca nelle risorse delle profondità marine – terre rare soprattutto. In una struttura di questo tipo potrebbero vivere fino a cinquemila persone.

Il tutto a impatto ambientale zero, senza emissioni di anidride carbonica, che verrebbe conservata nella struttura e riutilizzata per produrre nuova energia.

Il costo totale del progetto si aggira intorno ai 25 miliardi di dollari e la tecnologia necessaria potrebbe già essere disponibile nel 2030.

Sempre a patto che per quella data, il Giappone abbia risolto i suoi problemi in alto mare. E non mi riferisco a Godzilla, ma a questioni geopolitiche irrisolte da diversi decenni.

Tra quelle tornate prepotentemente di attualità c’è la situazione nelle isole Senkaku-Diaoyu, un piccolo arcipelago di isole disabitate comprese (e contese) tra Giappone, Taiwan e Cina, nel mar cinese orientale.

All’ultimo summit per la Cooperazione economica nell’Asia Pacifico (Apec), i responsabili degli Esteri di entrambi i paesi hanno siglato un accordo in più punti che prevede l’apertura di una linea diplomatica diretta tra le due parti per favorire una gestione concertata di eventuali conflitti che dovessero nascere in quelle acque.

La questione affonda le sue radici nei primi anni del Ventesimo secolo, con le prime attestazioni di attività economiche giapponesi sulla maggiore delle isole, ma viene poi dimenticata per circa un centinaio d’anni.

Ricompare negli anni Settanta con la fine dell’occupazione americana di Okinawa, poi nuovamente a fine anni Novanta e, infine, periodicamente nei Duemila: è negli ultimi anni infatti che si sono verificate incursioni di navi cinesi e taiwanesi in acque formalmente giapponesi, tentativi di conquista e insediamento da parte di attivisti dalle tre parti e speronamenti tra pescherecci cinesi e guardia costiera giapponese.

La seconda situazione delicata riguarda invece la Russia. Il presidente Vladimir Putin è atteso a Tokyo nei prossimi mesi oltre che per parlare di sanzioni e forniture di gas anche per discutere della sovranità sulle isole Curili, all’estremo Nord del Giappone, sopra l’isola di Hokkaido. Nonostante le isole siano abitate da russi, ucraini, bielorussi e tatari – quasi tutti lavoratori del settore ittico – e siano sotto il pieno controllo di Mosca, le due parti sono formalmente ancora in guerra, incapaci di trovare un accordo dal 1945 ad oggi.

C’è infine il nodo Dokdo-Takeshima, che da cinquant’anni divide – insieme alla questione comfort women – Tokyo da Seul.

Qui, addirittura, la disputa territoriale è filtrata nel mondo dello spettacolo: pochi giorni fa un cantante sudcoreano, Lee Seung-chul, si è visto negare il visto d’ingresso in Giappone, probabilmente, spiegava il Korea Herald, per essersi esibito nelle isole contese la scorsa estate.

Con tre lati di oceano abitabili su quattro a rischio – certo, assai remoto – di conflitti, andare ad abitare in mare è ancora una buona idea?

Forse sarebbe meglio ridiscuterne un’altra volta. Magari quando qualcuno riuscirà a tracciare un confine sull’acqua

[Anche su East Rivista di Geopolitica; foto credit: guardian.com]