Generazione Foxconn

In by Simone

Foxconn è il più grande produttore mondiale di componentistica per l’elettronica di consumo. Multinazionale taiwanese che produce per Apple, è finita sotto la luce dei riflettori nel 2010 quando, all’interno dello stabilimento di Shenzhen, è cominciata una catena di suicidi tra i dipendenti. Le opinioni di Ivan Franceschini.
In questi giorni, proprio su mandato Apple, la Ong statunitense Fair Labor Association (Fla) svolge un’indagine tra circa 200mila dipendenti Foxconn per chiarire in quali condizioni lavorino.

Le polemiche non mancano: Le Monde ha raccolto diverse testimonianze che accusano la Fla di essere una ong poco trasparente e al centro di conflitti d’interesse: “Il suo consiglio d’amministrazione è composto in parti uguali da rappresentanti dell’industria, delle associazioni e delle università”.

Inoltre avrebbe “un codice di comportamento troppo limitato, che non ha dato luogo a impegni in materia di diritti delle donne”. Altre organizzazioni hanno in passato criticato “la scelta della Fla di non rendere pubblico l’elenco delle fabbriche ispezionate”.

La vicenda è un buon punto di partenza per parlare di condizioni di lavoro in Cina con Ivan Franceschini, ricercatore italiano che vive a Pechino e autore, con Tommaso Facchin e Tommaso Bonaventura, di Dreamwork China, un documentario sui giovani lavoratori migranti della Foxconn di Shenzhen.

Non conosco la Fair Labor Association, ma alcune ong cinesi, chiamate dai clienti internazionali della Foxconn, hanno già fatto ricerche basate su interviste ai lavoratori. Immagino però che un’iniziativa promossa da Apple sia più capillare e di ampia scala, anche a causa della grande risonanza mediatica.

La chiamata di terze parti per verificare condizioni di lavoro e corrispondenza ai codici di responsabilità aziendale è molto comune in Cina, ma raramente funziona. In genere si tratta di piccole imprese, subfornitori, che adottano espedienti come buste paga false e un doppio sistema di libri contabili.

Inoltre, visto che le ispezioni sono annunciate in anticipo, il datore di lavoro può ricattare i dipendenti minacciandoli di licenziamento o, al contrario, promettere loro dei bonus se dicono quello che sta bene a lui. Oppure ancora, spaventarli dicendo che se raccontano qualcosa che nuoce all’azienda, si finisce per chiudere e loro perdono il lavoro.

Tutti meccanismi che conosciamo benissimo anche in Italia. Molte aziende si sono addirittura sdoppiate: un’impresa “di facciata” dove tutto è in regola e poi lo sweatshop.

Credo che l’attenzione mediatica farà sì che invece alla Foxconn l’indagine funzioni. Sicuramente è una buona mossa dal punto di vista delle pubbliche relazioni.

Ma bisogna anche vedere che cosa ci si aspetta dalla Foxconn. La stessa definizione di xuehan gongchang (血汗工厂), “fabbrica del sudore”, non è chiara: si parla solo di salari o anche di altri parametri? Non si capisce se può essere applicata alla Foxconn che, tra l’altro, ha tanti stabilimenti sparsi per la Cina.

Quello di Shanghai, che ha 400mila dipendenti, è al centro dell’attenzione: i media hanno parlato dei suicidi avvenuti lì. Ma ce ne sono decine e la produzione viene sempre più spostata nelle regioni dell’interno: Shanghai e Shenzhen stanno invece diventando poli dove si fa ricerca e sviluppo.

Anche se la Foxconn fa accordi con le scuole tecniche e molti dei suoi dipendenti sono inquadrati come stagisti e quindi pagati meno, non può permettersi di violare le leggi in maniera così lampante come fanno le fabbriche di piccole dimensioni.

Le leggi cinesi sono estremamente dettagliate per quanto riguarda i diritti individuali. Il problema è la loro applicazione, per via dell’estrema stratificazione e degli interessi contrastanti all’interno della società cinese, per cui quello che viene deciso a Pechino contrasta magari con interessi locali. Ma sulla carta, a esempio per quanto riguarda gli orari di lavoro, le leggi sono molto avanzate.

Sono invece i codici di condotta aziendale e i contratti collettivi che in Cina sono tarati sul minimo, puntano al ribasso. Tuttavia adesso alcune aziende cominciano ad avere una visione sul lungo periodo, a investire sulla forza lavoro, anche perché il turnover è molto alto.

Dal 2004, il mercato del lavoro in Cina sta cambiando moltissimo, a fasi alterne le imprese fanno fatica a trovare manodopera e il datore di lavoro non è più nella posizione di forza in cui si trovava prima: deve fare concessioni su condizioni lavorative e salari – Foxconn compresa – soprattutto nelle città costiere della tradizionale cintura manifatturiera.

Il dibattito sui suicidi alla Foxconn è ancora aperto. C’è chi parla di un inquadramento eccessivamente militaristico dei dipendenti, ma molto cinicamente va detto che 15 suicidi su 400mila dipendenti a Shanghai – o un milione in tutta la Cina – non sono statisticamente rilevanti. Questo è un ragionamento che fanno diversi studiosi.

Per altro, non sappiamo quanti suicidi avvengano invece in altre fabbriche meno al centro dell’attenzione. Dal mio punto di vista, puntare il dito solo contro la Foxconn è riduttivo, perché fa passare in secondo piano la dimensione esistenziale in cui si muovono questi ragazzi. C’è una generazione di giovani, così come era già stato per i loro padri, che lasciano casa magari a sedici anni e vanno in un posto totalmente sconosciuto a fare un lavoro alienante alla catena di montaggio.

Questo non è ‘la Foxconn’, è il panorama di un’intera generazione. Ad aprile-maggio 2010, la vicenda dei suicidi è emersa sui media cinesi. La Foxconn viene attaccata da anni perché è visibile, ma questo è utile solo se attira l’attenzione su un problema più generale. È una fabbrica simbolica.

[Quest’articolo è stato scritto per E il mensile]

* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano