Trasferire ricchezza dallo Stato alle famiglie. Il che significa dalle elite alla gente comune. Mica facile. È questo il significato economico-sociale delle riforme in corso di definizione all’interno della leadership cinese. Che stanno già avvenendo e che non hanno bisogno di annunci roboanti Qual è, da un punto di vista più generale, il significato economico-sociale delle riforme in corso di definizione all’interno della leadership cinese? Proviamo a spiegarlo, facendo però una dovuta premessa: le diffuse aspettative rispetto a “grandi trasformazioni” che dovrebbero essere annunciate il 12 novembre, difficilmente troveranno riscontro in “annunci shock”, almeno secondo gli standard a cui siamo abituati in Occidente.
Alcune riforme sono già iniziate sperimentalmente a livello locale, altre sono state annunciate un giorno sì e l’altro pure negli ultimi sei mesi, preparandone di fatto il terreno. Questo plenum detterà soprattutto il tono generale, metterà qualche pietra miliare per segnalare il punto da cui non si torna più indietro, ma la “macchina Cina” è già in movimento. Almeno da quando la nuova leadership si è insediata, circa un anno fa.
Ma entriamo nel merito.
Michael Pettis – noto analista finanziario esperto di Cina e professore di economia all’università di Pechino – definisce bene l’economia del Dragone per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi trent’anni, quando dice: “Quello cinese non è un modello export oriented, come si ripete sempre e come è per esempio effettivamente quello tedesco. È un modello industriale. L’export c’è e si è sviluppato alla grande perché il mercato interno non riesce ad assorbire la produzione”.
È un caso non nuovo, nella storia economica del mondo. Simili alla Cina di oggi – sempre secondo Pettis – erano la Germania degli anni ’30, l’Urss nel decennio ’50-’60, il Brasile negli anni ’60-’70, poi il Giappone.
Dire che non stiamo parlando di un modello export oriented, bensì industriale e quasi “costretto” a esportare, sembra una pignoleria da economisti. Ma ha il il merito di introdurci a due ulteriori verità che spiegano bene la strettoia di fronte alla quale si trova oggi il Dragone: il sistema Cina non esporta grazie all’alta competitività qualitativa e tecnologica dei suoi prodotti (come la Germania, appunto); al tempo stesso, ha garantito alti tassi di crescita perché è stato ampiamente sussidiato. È dunque un modello ad alta intensità di investimenti.
In realtà, funziona grazie a tre meccanismi di sussidio che, oltre a pompare verso l’alto il ritmo di crescita, hanno di fatto anche spostato la ricchezza verso alcune elite legate alle grandi imprese di Stato, a scapito delle famiglie: hanno prodotto diseguaglianza sociale.
1) La svalutazione del Renminbi (cioè, tassa sul reddito delle famiglie).
Se tieni basso il valore della moneta, esporti più facilmente grazie al basso costo delle tue merci. Questa significa di fatto una tassa sul reddito delle famiglie, una specie di gabella sui consumi che spinge in alto il Pil grazie all’export del sistema industriale ma non grazie ai consumi interni. Così cresce il divario tra crescita del Pil e livello dei consumi; e la quota di Pil ad appannaggio delle famiglie resta bassa.
2) Forbice tra crescita dei salari e del Pil (cioè, tassa sul reddito da lavoro).
Negli anni 80-90, l’esistenza di un grande esercito industriale di riserva ha tenuto i salari bassi. Si è parlato di una loro maggiore crescita negli ultimi anni a causa della fine della rendita demografica, tant’è che i lavoratori migranti possono spesso “scegliere” il proprio lavoro, sfuggendo alle grinfie padronali. Ma al netto dell’inflazione, i salari continuano a crescere meno del Pil, cioè i lavoratori tengono solo una piccola parte di ciò che producono. Così, sussidiano anche loro la crescita del Pil.
3) Il meccanismo forse più importante, quello che gli anglosassoni chiamano “financial repression” (cioè, tassa sui risparmi dei cinesi).
In condizioni normali, la crescita dei tassi di interesse bancari dev’essere più o meno uguale a quella del Pil. Se sono tenuti artificialmente bassi, si crea un’ulteriore forbice che si traduce nell’ennesima tassa sulla famiglie (viste in questo caso nella veste di risparmiatori che depositano i propri soldi in banca). È una forma di sussidio del costo del capitale.
Al di là della diseguaglianza – i cui effetti sono parzialmente ammortizzati dalla promessa di benessere diffuso e dal fatto che un migrante di oggi sta comunque meglio di un contadino di ieri – questo sistema non è più funzionale.
La Cina non ha più capacità di assorbire capitale (investimenti), perché il mondo non riesce più ad assorbire le produzioni cinesi. Bisogna quindi cambiare la fonte della crescita e la più “sostenibile”, la scelta pressoché inevitabile, è il consumo interno. La Cina deve per forza spostare ricchezza verso le famiglie: la quota di Pil che si mettono in tasca deve aumentare.
È però difficile cambiare per due motivi.
Primo. C’è un’inerzia “ideologica”. “Se il sistema ha funzionato così bene, perché bisogna cambiarlo?”, si chiedono in molti.
Secondo e più importante, c’è un’inerzia materiale. Perché un’intera struttura politica e una vasta rete di interessi costituiti e ramificati si si sono costituite sul vecchio modello.
Questo è il vero grosso problema. Il reddito delle famiglie deve oggi crescere più di quello degli “State actors”. Finora, ciò che era giusto per l’elite era giusto anche per il Paese. Ma nei prossimi anni gli interessi dell’elite non saranno più gli stessi del Paese e, in qualche modo, chi sta al potere deve “sacrificarsi” per dare nuovo slancio alla Cina. Il che ci dà la dimensione epica, e forse unica, del cambiamento in corso, nonché dei conflitti interni al Partito-Stato. E forse, anche di una vera e propria lotta di classe soggiacente.
Che consenso c’è su questo cambiamento? Il dibattito, contrariamente a quanto spesso riferiscono i corporate media occidentali, è molto intenso. Tra gli economisti cinesi c’è una comprensione generalizzata di quale sia il problema, la differenza tra pessimisti e ottimisti riguarda la velocità del cambiamento. Molti pensano che far crescere tassi d’interesse, valore del Renminbi e così via nel giro di 10 anni sia troppo lento. Ma c’è sempre quel “problemino” di compatibilità politica.
Tuttavia, si sa bene che il modo in cui il problema può essere affrontato è duplice: trasferimento diretto dallo Stato alle famiglie, cioè welfare, oppure liberalizzazioni (tipo dare ai contadini la possibilità di vendere le proprie terre, oppure le privatizzazioni in genere). Il Giappone, per esempio, ha cercato di risolvere il problema facendosi carico del debito privato (da cui è discesa l’esplosione del debito pubblico).
Molto più pragmaticamente, vanno intraprese entrambe le strade.
Spesso si obietta che il settore pubblico garantisca comunque l’occupazione. Il punto è controverso, ma probabilmente non è così vero: la crescita del settore statale è stato soprattutto capital intensive, come si è visto, e le enormi ristrutturazioni delle imprese di Stato, negli anni Novanta, hanno già decimato la componente operaia. Se si vuole un’economia più labor intensive (se si vuole quindi trasferire ricchezza), bisogna sviluppare soprattutto le piccole-medie imprese.
Tornando a Michael Pettis, il suo “best case scenario” vede una crescita che nei prossimi anni si attesta gradualmente sul 3 per cento, il reddito delle famiglie che sale al 7 per cento e un ribilanciamento generalizzato dell’economia.
In questo quadro vanno viste e giudicate le riforme che emergeranno dal terzo plenum.
Ponendo una di fianco all’altra due notizie uscite nel week-end, riusciamo forse ad avere la percezione anche tangibile di come la trasformazione stia concretamente avvenendo.
Nella provincia nord-orientale dell’Heilongjiang, si è cominciato a promuovere cooperative (attenzione, non “comuni popolari”) di agricoltori, ai quali sarà concesso anche sostegno finanziario affinché facciano sistema, mettendo insieme i propri terreni e le proprie produzioni e rendendo così l’agricoltura più efficiente.
Nel frattempo, il premier Li Keqiang si è espresso esplicitamente contro gli investimenti diretti dei governi locali nelle imprese private.
L’intenzione sembra chiara: incentivare da un lato i privati (e la riforma dei terreni agricoli, con tutta la questione contadina, meriterebbe trattazione separata) e porre dall’altro dei limiti al business (spesso speculativo) dei governi locali. Altrimenti detto: trasferire ricchezza dallo Stato alle famiglie.