Ieri le autorità di Hong Kong hanno rimosso le ultime barricate del quartiere Admiralty, segnando così la fine della protesta di Occupy Hong Kong, durata 75 giorni. Si tratta di una vittoria per Pechino, che ha gestito la situazione con un occhio di riguardo per i media occidentali. I manifestanti non hanno portato a casa nessun risultato tangibile, troppo deboli politicamente e "militarmente".
Dopo MongKok e Causeway Bay, ieri è stata la volta di Admiralty: la polizia di Hong Kong ha rimosso le barricate «pro democrazia» e ha posto termine alla protesta che per 75 giorni ha movimentato l’ex colonia britannica. Sono state arrestate alcune persone, tra cui Jimmy Lai, figura nota di Hong Kong ed editor di Apple Daily, media da sempre molto critico nei confronti del governo locale e di Pechino, ma tutto è avvenuto in un clima piuttosto calmo, benché colmo di delusione da parte dei manifestanti. La loro protesta si è conclusa, infatti, senza che sia stato portato a casa nessun risultato tangibile.
Lo sgombero delle barricate nella zona finanziaria dell’ex colonia britannica segna dunque la fine di questa tornata di manifestazioni, nata a ottobre e sviluppatasi fino a ieri; le proteste erano nate sull’onda della richiesta di un suffragio universale per le elezioni del 2017, trovando una risposta ferma tanto da parte del governo locale, quando da parte di Pechino, che fin da subito ha etichettato come «illegali» le manifestazioni e non ha mai aperto alcuno spiraglio reale di trattativa.
Le manifestazioni non hanno portato dunque ad alcun risultato per i giovani contestatori, troppo deboli rispetto al «nemico» (vale a dire il partito comunista cinese) sia da un punto di vista politico, sia da un punto di vista militare. Quella rete di ong, finanziate dall’estero e per lo più dagli Usa (e che ha fatto sospettare Pechino di un movimento «sobillato» dall’estero) hanno spinto per la protesta all’inizio, salvo poi ritirarsi man mano che diminuiva l’intensità, e per certi versi aumentava il nuovo prestigio internazionale della Cina, che in questi due mesi ha portato a casa risultati internazionali rilevanti, a partire dalla bocciatura dell’accordo economico proposto in Asia dagli Usa, con successivo indebolimento della politica americana nell’area.
I ragazzi di Hong Kong sono stati bravi, ma sfortunati, perché hanno prodotto il massimo sforzo nel momento migliore – forse – sia interno, sia internazionale della Cina di Xi Jinping. Come quasi sempre accade quando si parla di Cina, i «ragazzi con gli ombrelli» hanno saputo bucare però i media internazionali, stupendo per il proprio coraggio nell’affrontare il nemico numero del mondo occidentale, vale a dire la Cina.
Bisogna precisare, però, che quando qualche movimento di protesta si realizza in Cina, non crea lo stesso trasporto mediatico in Occidente: basti pensare agli scioperi dei lavoratori o alle proteste, quotidiane, dei «petizionisti». Poveracci, per lo più penalizzati dalla brutalità del sistema sociale e giudiziario cinese, che senza sponsor e finanziamenti americani sfidano davvero il governo di Pechino. Si tratta di proteste ben più complicate, che il più delle volte non mettono in croce il partito comunista centrale, bensì il funzionario locale o il poliziotto corrotto, creando vere e proprie proteste popolari violente, minacciose e spesso vincenti.
I ragazzi di Hong Kong però, contrariamente ai «petizionisti», sanno usare bene lo smartphone e i social media e vivono in una società benestante (Hong Kong è una città ricca, con standard di costi della vita praticamente occidentali) e hanno saputo attirare l’attenzione dei media nostrani, desiderosi di ritrovarsi tra le mani una protesta facile da etichettare e capire, proprio in casa di Pechino, benché in periferia.
E che la Cina stia cambiando lo ha dimostrato la gestione di quanto accaduto a Hong Kong: senza repressione, con fermezza e con attenzione al pubblico internazionale. Secondo Pechino, la concessione del suffragio universale è sufficiente, tenendo conto anche del passato coloniale. Se poi il popolo di Hong Kong dovrà scegliere tra due o tre nomi graditi a Pechino, per il Pcc è logico: solo così si può preservare l’«armonia» e la sicurezza dell’ex colonia.
Ma sicuramente, dopo la fine della protesta, qualcosa potrà accadere sottobanco: Pechino sa bene che lo sgombero potrebbe non bastare a placare una nuova richiesta di «democrazia» da parte degli abitanti di Hong Kong. Più giustizia sociale, maggiore possibilità di rappresentarsi e forse la testa di qualche dirigente locale, potrebbero essere le mosse per assopire davvero questa stramba rivolta di Hong Kong.
[Scritto per il manifesto; foto credit: ibitimes.com]