Jing Linbo and Wang Xuefeng della Chinese Academy of Social Sciences hanno lanciato l’allarme sulla prestigiosa rivista Study Times, una pubblicazione della scuola di partito cinese: secondo loro le compagnie internet cinesi sarebbe fortemente controllate dai capitali stranieri (in particolar modo quelli statunitensi).
Si tratta di un allarme “dalle severe conseguenze”. Trattandosi di un articolo, qui la versione in cinese, qui un riassunto riportato dal Wall Street Journal, uscito direttamente dal Partito, deve essere preso come un ammonimento condiviso dalle sfere più alte della politica cinese.
L’articolo dello Study Times ha innescato una discussione tra i media cinesi, incentrata su esempi in grado di esplicare la questione, arrivando infine a chiedersi chi veramente gestisca e possieda il mondo dell’internet cinese. L’intento nasce dalla recente questione legata ad Alibaba e Yahoo. L’azienda americana, che detiene il 43% di Alibaba, leader cinese dell’ecommerce, aveva protestato contro la decisione di Jack Ma, boss di Alibaba, di trasferire ad una società tutta cinese il controllo di Alipay, strumento di pagamento on line, senza aver consultato la controparte americana. Jack Ma, a sua volta, si era difeso sostenendo che la sua decisione era dovuta alla necessità di preservare l’azienda, nonché di rispettare la legge cinese che vieta la proprietà straniera sui sistemi di pagamento on line in Cina. Sicurezza e sopravvivenza, sarebbero le giustificazioni del gruppo cinese.
I teorici dello Study Times, partendo da questo scontro, hanno sottolineato il rischio che il capitale straniero che finanzia molte aziende cinesi, finisca poi per controllare un settore strategico: se il 20% di un’azienda si traduce in un controllo moderato, il 50%, scrivono sullo Study Times, è un controllo in piena regola. L’intento dell’articolo è chiaramente quello di richiedere una maggiore sorveglianza, non solo sulla struttura del capitale, ma anche nelle direzioni del business, inserendosi nel più generale dibattito che vede la Cina accusare gli Usa di non tutelare interessi cinesi sul territorio americano, e gli Usa accusare la Cina delle stesse pratiche nel Regno di Mezzo.
Sulla rivista Caixin, nell’edizione inglese, una riflessione è stata proposta da Donald Clarke, professore alla George Washington University Law School. Al di là di aspetti tecnici circa la partecipazione di capitali stranieri all’interno dell’economia cinese, di cui Clarke spiega meccanismi in modo dettagliato, lo studioso americano fornisce alcuni esempi che smonterebbe i timori dello Study Times, rivelando, al contrario, uno stretto controllo da parte cinese sulle company più rilevanti del mondo internet.
Scrive Clarke: prendiamo ad esempio Baidu (gestita al NYSE tramite una società registrata alle isole Cayman)il 52% del potere di voto è di proprietà di Robin Li, direttamente o tramite una società, la BVI, che possiede e controlla. Un altro 16 per cento è di proprietà di sua moglie. Fatta eccezione per una partnership scozzese che detiene il 2,49%, il resto del potere di voto sembra essere molto controllata. Il capitale straniero sta aiutando Robin Li, ma non esercita alcun controllo. Robin Li, per quello che ne so, è un cittadino patriottico, che controlla la società off-shore e il denaro.
Dangdang (una società di ecommerce nda) presenta un altro modello di controllo. In questo caso, gli imprenditori cinesi – Li Guoqing e Peggy Yu – non hanno in assoluto il controllo di maggioranza. Essi, tuttavia, controllano oltre il 45 per cento del potere di voto della società e occupano le prime posizioni di gestione e consiglio. Questi esempi non sembrano esattamente andare incontro al rischio di un controllo eccessivo da parte dei capitali stranieri.
BAIDU E SINA, NUOVI SERVIZI
Il mondo del web cinese è frizzante e ricco di novità, alla rincorsa costante di nuovi servizi e nuovi modi per soddisfare un popolo on line sempre più numeroso (ormai circa 480 milioni i navigatori in Cina). Al di là infatti di un ristretto numero di attivisti, abili nell’utilizzare le reti per diffondere messaggi critici (anche se spesso sono identificati in forme di dissidenze che non corrispondono poi alla realtà dei fatti, ma capiamo pure le esigenze di semplificazione da parte di molti media nostrani) il web cinese è un luogo nel quale le aziende cercano di soddisfare i principali desideri della massa di navigatori, ovvero il divertimento e il download.
Ieri Baidu ha lanciato il suo nuovo browser, di cui potete trovare descrizioni e analisi sull’ottimo report fornito da Penn Olson, ma più di ogni altra cosa ha annunciato l’accordo con le case discografiche principali cinesi e americane per ovviare alle accuse di pirateria di cui è stato vittima il colosso cinese. Baidu pagherà le case discografiche e gli utenti potranno scaricare a gratis la musica del sito ad hoc, Tīng (in cinese, ascoltare). Una mossa importante ed astuta, che potrebbe mettere a tacere le critiche internazionali a Baidu.
C’è un trend visibile in ogni azienda cinese che opera nel mondo del web o dell’ICT in generale: la vocazione globale. Non solo in termine di presenza all’estero con uffici e centri di ricerca in cui assumere anche personale non cinese, ma anche in riferimento ai consumatori: ovvero sporgersi anche sul mondo occidentale e capire l’appealing dei propri servizi anche ad un pubblico che non parla cinese (vedi il prossimo servizio di Weibo, il twitter cinese di Sina in inglese).
Non sorprende quindi la grande inventiva dei servizi offerti lanciati in questi giorni. Oltre Baidu, anche Sina ha lanciato due novità: una Game Center, riservato ai propri iscritti e la moneta virtuale Weibi (微币). Come analizzano i sempre attenti redattori di Techrice, non si tratta della prima moneta virtuale cinese. Molti tra i social network cinese hanno già lanciato il servizio, sia Renren, Tencent, Caixin.
[Anche su wired.it, immagine da techrice]