Covid: Asia ed Europa nel terzo anno pandemico

In Economia, Politica e Società, Sociale e Ambiente by Sabrina Moles

Se c’è una lezione che abbiamo imparato negli ultimi due anni è che il Sars-CoV-2 non ha confini, nazionalità o colore politico. Ma non i governi che cercano di contenerlo. Una panoramica su come le due regioni affrontano il virus oggi

Un problema, ma tante misure diverse. Una strategia “casi-zero” e decine di sfumature della “convivenza con il virus”. Tante, quanto diversi sono i protocolli, le procedure, la burocrazia e la mobilitazione di forza umana nella lotta al Covid-19. Sono passati quasi due anni dall’allarme ufficiale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), mercoledì 11 marzo 2020, e ora il mondo si prepara a entrare nel terzo anno pandemico. Allora le risposte dei governi avevano già preso strade differenti, così come sono stati vari gli effetti socioeconomici causati dalle strategie nazionali. La complessità della questione ha presto abbassato le difese immunitarie delle relazioni che tenevano in funzione le strutture sociali, economiche, sanitarie e politiche di tutti i paesi al mondo. E l’emergere di nuove varianti continua a richiedere un aggiustamento costante delle strategie di contenimento del virus. Cosa sta accadendo tra due universi simili, ma altrettanto diversi come quello europeo e quello asiatico?

I dati

Secondo i dati del Johns Hopkins Institute, durante il mese di gennaio il Covid-19 ha provocato la morte di oltre cinque milioni e mezzo di persone nel mondo. Sugli oltre 350 milioni di casi registrati, la maggior parte sembra addensarsi intorno alla regione europea e nordamericana, con il caso dell’India ad alzare la media regionale dell’Asia. Bisogna precisare, però, che nell’area asiatica i casi di Covid-19 confermati sarebbero di gran lunga inferiori rispetto alle cifre ufficiali. Il gruppo di ricerca OCTA a gennaio ha fatto una stima dei casi Covid-19 a Manila di 6-15 volte superiore a quanto riportato dalle autorità. Un altro esempio noto è quello dell’India, dove i casi reali della seconda ondata (primavera 2021) sarebbero stati quindici volte maggiori rispetto ai dati ufficiali, complici l’ampiezza della popolazione e del territorio uniti alla mancanza dei servizi di tracciamento e cura adeguati.

Le strategie

La Cina è oggi l’unico grande paese a perseguire la strategia “casi zero”: una sfida resa ancora più complessa dalla coincidenza tra vacanze per il nuovo anno lunare (1-11 febbraio), Olimpiadi invernali di Pechino (4-20 febbraio) e l’arrivo della variante Omicron (registrato il 14 gennaio a Tianjin, circa 100 km a Est di Pechino). I protocolli sono pressoché invariati dal 2020: un solo caso di trasmissione locale è sufficiente ad attivare il meccanismo di emergenza locale, che prevedere test di massa, limitazioni agli spostamenti e lockdown localizzati finché le autorità non lo ritengono opportuno. A sostenere questa strategia rimane valido il sistema di tracciamento validato da un QR code personale, che può segnalare l’appartenenza del soggetto a un’area a rischio e ostacolarne gli spostamenti o l’accesso a luoghi “a rischio” come le stazioni ferroviarie. In alcune città le autorità hanno chiesto ai cittadini di rimanere a casa durante le vacanze del capodanno lunare (periodo che registra il record di “maggiore migrazione umana” al mondo), mentre in altre sono stati fatti degli screening di massa preventivi.

Questo non significa che la popolazione cinese stia vivendo serenamente le restrizioni. Lo stesso Quotidiano del popolo (renmin ribao) sembra avere ora un approccio ambivalente, più attento a disinnescare il sentiment della popolazione. Il dito rimane puntato soprattutto contro le autorità locali e i contagi “importati”: non più solo la catena del freddo e il virus che viaggia sui prodotti congelati, ma anche pacchi postali o animali da compagnia.

Il resto dei paesi asiatici si è avvicinato a misure di convivenza con il virus simili a quelle europee, ma in molti paesi non manca una certa attenzione alle strategie quotidiane di prevenzione: mascherine, pulizia delle mani e auto-isolamento. Non per niente il 2020 era stato l’anno dell’ “Asia virtuosa”, che aveva saputo contenere il virus in virtù di un meccanismo di risposta già allenato dalla Sars del 2003, dall’influenza H1N1 del 2009 e dalla Mers del 2015. Le regole erano in qualche modo già chiare (se non date per scontate) e le autorità sanitarie già preparate allo stato di emergenza epidemica. Ciò non esclude che la Sars-Cov-2 abbia messo in difficoltà anche i paesi più preparati, soprattutto con il persistere di nuove varianti più contagiose.

Per questo motivo, in tutta l’Asia rimangono valide le limitazioni agli ingressi, che nella maggior parte dei casi vengono riservati ai ricongiungimenti famigliari o per questioni lavorative. Tutti gli arrivi dall’estero vengono, solitamente, soggetti a una quarantena che può andare dalle due settimane a pochi giorni, sempre a seconda della politica locale. I paesi più penalizzati dal blocco agli spostamenti hanno ridotto le misure di controllo in modi differenti: in alcuni casi la garanzia è un ciclo vaccinale completo, in altri il basso tasso di contagi del paese di provenienza – in alcuni casi eliminando completamente la quarantena come accade nelle cosiddette “travel bubble”. In alcuni casi un QR code conferma l’immunità del soggetto e permette di accedere ad alcuni luoghi. Tutte strategie che anche i paesi europei hanno messo in atto con l’obbiettivo di facilitare gli spostamenti nell’area Schengen, anche se l’arrivo della variante Omicron sta – ancora una volta – dividendo i governi sulla necessità o meno di reintrodurre la quarantena per i soggetti vaccinati.

I vaccini

Vaccinare i cittadini è diventato prioritario per tentare una soluzione meno sacrificante degli interessi economici e politici nella maggioranza dei paesi al mondo. Anche nel Sudest asiatico iniziano a essere approvate le pillole antivirali per uso emergenziale, mentre in altri è iniziata la produzione di questi farmaci in loco: uno degli ultimi casi riguarda il Laos, che ha ottenuto insieme ad altri paesi in via di sviluppo la licenza per produrre il Molacovir.

Mentre l’Unione Europea spingeva per vaccinare più individui possibile, anche il continente asiatico ha cercato di spostare l’attenzione dai lockdown alle inoculazioni di siero anti-Covid. Ciò è avvenuto (e sta avvenendo) con una velocità minore. Prendiamo due tra le nazioni con il più alto tasso di contagi nella rispettiva regione di appartenenza. Dall’inizio della pandemia la Francia ha registrato oltre 15 milioni di casi e oltre 125.400 morti su 65.449.748 milioni di abitanti, mentre il 74,7% della popolazione ha completato il ciclo vaccinale. L’Indonesia ha segnalato oltre 4 milioni di casi, ma 144.20 morti su una popolazione di oltre 278 milioni di abitanti, di cui 44,3% sono vaccinati con due dosi. Qui la campagna vaccinale è stata sostenuta soprattutto dai sieri cinesi, mentre un’altra parte delle forniture arriva dal meccanismo di distribuzione globale COVAX.

Dopo l’ostacolo dell’accessibilità “nazionale” nella distribuzione globale dei vaccini, rimane la variabile della capacità di distribuzione “locale”. Sempre l’esempio dell’Indonesia torna utile per spiegare quanto sia complesso organizzare una strategia di distribuzione dei vaccini a livello locale che tenga conto delle effettive risorse umane schierate sul campo. Un problema che appartiene anche alle aree rurali della Cina continentale, ma dove esiste una maggiore capacità di mobilitazione delle risorse, pur con i suoi difetti che variano caso per caso: è quanto accaduto a Xi’An, dove la gestione “disordinata” dell’emergenza ha spinto Pechino a punire le figure responsabili della strategia di contenimento del virus. Anche Giappone e Corea del Sud hanno saputo ottenere dei risultati positivi dalle campagne di vaccinazione, ma non è completamente escluso un altro problema: il rifiuto del vaccino. Nonostante sia l’Europa orientale a registrare uno dei maggiori tassi di rifiuto del vaccino anti-Covid, anche in Asia si sono registrate delle sacche di resistenza alle politiche sanitarie. Nelle Filippine il presidente Rodrigo Duterte ha minacciato di “dare la caccia” ai non vaccinati, mentre in Myanmar il rifiuto del vaccino è diventata una forma di resistenza passiva al regime e manifestazione di protesta contro la Cina (accusata di sostenere la giunta militare e principale fornitore di vaccini nell’area).