Cina-Hong Kong, Zhang Dejiang prova a ricucire

In by Gabriele Battaglia

Il numero tre del potere cinese ha utilizzato il grimaldello delle prospettive economiche legate alla nuova Via della Seta per tranquillizzare – se non sedurre – la popolazione dell’ex colonia britannica. Ha anche detto che il principio «un Paese, due sistemi» non è in discussione. Un strategia di dubbio successo. Hong Kong avrà un ruolo chiave nello sviluppo della nuova via della seta. È questa la promessa del numero tre del potere cinese Zhang Dejiang, una dichiarazione fatta durante la sua visita ufficiale in corso nell’ex colonia britannica (17-19 maggio). È la prima visita di questo livello dal movimento Occupy dell’autunno 2014.
Zhang – presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo ma anche responsabile per Hong Kong e Macao – ha detto che, per le sue peculiarità, Hong Kong è fondamentale per lo sviluppo di Yi Dai, Yi Lu, «una cintura una via», la formula con cui la Cina progetta di ampliare il proprio raggio economico lungo tutta Eurasia, nel corso dei prossimi anni.

Hong Kong è da sempre la porta di ingresso del mondo in Cina e l’hub finanziario dell’Estremo Oriente, il luogo dove le differenze tra l’ex Celeste Impero e l’Occidente si ricompongono. Zhang ha confermato che sarà così anche in futuro, riaffermando per esempio l’importanza del porto dell’ex colonia britannica e sottolineando il ruolo che la zona amministrativa speciale può avere nell’internazionalizzazione dello yuan, la moneta cinese.
In un pranzo ufficiale a cui non ha partecipato nessun membro dello schieramento pan-democratico del locale LegCo (consiglio legislativo), il rappresentante di Pechino ha citato la formula «un Paese, due sistemi» di Deng Xiaoping, insistendo sul fatto che non sarà modificata in futuro perché costitutiva dei rapporti tra Cina continentale e Hong Kong, insistendo però sulla necessità di far rispettare le leggi. Un monito che molti hanno interpretato come avvertimento nei confronti delle tendenze separatiste che serpeggiano nell’ex colonia britannica.

Le affermazioni di Zhang sono in realtà molto politiche. Il movimento Occupy del 2014, nel chiedere una «democrazia genuina», era di fatto espressione delle incertezze di vaste fasce della popolazione di Hong Kong, che negli ultimi anni ha sempre più sofferto della concorrenza di nuovi centri emergenti, come Shanghai, e più in generale della pressione della Cina alle proprie spalle. Una pressione che si esemplifica per esempio nelle carovane di cinesi continentali che si recano a Hong Kong a comprare beni di prima necessità precedentemente riservati al locale ceto medio, e che provocano l’irritazione degli hongkonghini che si sentono defraudati. Ci sono poi le pressioni sul welfare locale, con i cinesi che sempre più fanno ricorso alle migliori cure mediche di Hong Kong. Infine il rischio di dumping sociale, con la paura che sempre più produzioni si trasferiscano sul continente per via dei minori costi di produzione. È soprattutto la generazione più giovane a temere questi scenari futuri.

Con il terrore di perdere i vantaggi economici, c’è anche la paura di perdere alcuni diritti democratici come la libertà di stampa e di organizzazione del dissenso. Per questo, in una Hong Kong che non ha mai avuto il suffragio universale, adesso proprio il suffragio universale è chiesto a gran voce per le elezioni del 2017. Come garanzia contro l’eccessiva sinizzazione.

Zhang ha quindi cercato di dare garanzie di tipo economico dicendo al tempo stesso che Pechino non tollera spinte secessioniste. La leadership cinese sembra anche soddisfatta del lavoro fatto finora dal leader di Hong Kong, Leung Chun-ying, il chef executive che finì nel mirino del movimento un anno e mezzo fa. Zhang ha esaltato gli sforzi messi in campo dal governo locale per superare nodi gordiani come l’assistenza agli anziani e il problema degli alloggi, guarda caso due dei temi che più inquietano vecchi e giovani hongkonghini.

Mentre la trasferta pare ufficialmente mirata a rilanciare la One Belt One Road, il ruolo istituzionale di Zhang induce a credere che possano esserci stati anche colloqui a porte chiuse sulle elezioni per il chief executive previste per il 2017.
Non sono mancate le contestazioni. Una cinquantina di esponenti della Lega dei socialdemocratici ha cercato di sfondare i cordoni degli agenti per raggiungere la residenza ufficiale del chief executive ed esprimere la propria protesta contro la democrazia «non genuina» imposta da Pechino. Il parlamentare Gary Fan Kwok-wai, alla guida di una dozzina di pan-democratici, ha invece piazzato delle tombe di carta a Tamar Park per ricordare le vittime della Sars del 2003, che a Hong Kong furono 299. A quei tempi, Zhang era governatore del Guangdong, la provincia che confina con la zona amministrativa speciale e da cui originò la malattia. I manifestanti lo accusano di aver tenuto nascoste le informazioni sull’insorgere della malattia, impedendo così a Hong Kong di prendere misure in tempo utile.