Cina e Norvegia, un’amicizia in crisi

In by Simone

Con una nota chiara e diretta contro la Norvegia, la Cina ha dato il via al countdown più fastidioso dal suo punto di vista, ovvero la consegna del premio Nobel per la Pace del 10 dicembre 2010 a Liu Xiaobo, attivista cinese in carcere, per una condanna a 11 anni con l'accusa di sovversione dello stato.

Ai governanti cinesi non sembra preoccupare il cablegate di Wikileaks (peraltro il sito è bloccato in Cina) nonostante si sappia che dovranno uscire comunicazioni riguardanti le tragiche notti del 1989, così come indiscrezioni sulla querelle con Google, come sembra passare in secondo piano la problematica internazionale legata alla questione coreana.
I rapporti economici con la Norvegia sono stati spostati a data da definirsi. In una nota riportata da Jiang Yu, portavoce del ministero degli esteri cinese, si è specificato che «la Norvegia ha espresso il totale appoggio alla decisione della giuria del Premio Nobel: per questo è difficile mantenere le relazioni amichevoli del passato. Non è una questione di diritti umani o libertà di parola, quanto una questione di rispetto della sovranità degli altri stati e dello sviluppo della Cina».

Annosa questione per un paese in cui il tema dei diritti umani non ha avuto lo stesso iter occidentale: basti pensare che in Cina fino al 1864 non esisteva una parola (che sarà poi quan) per esprimere il concetto nostrano di diritti. Si aggiunga il fatto che per Pechino Liu Xiaobo è un criminale, condannato e pertanto il premio Nobel affidatogli diventa una ingerenza nelle politiche interne cinesi.

Una disputa crudele, sulla pelle di una persona in carcere e impossibilitato a comunicare all'esterno, solo per avere posto il suo nome su Charta08 e avere firmato un paio di documenti on line in cui si chiedevano riforme democratiche al Partito comunista cinese. Dal giorno della vittoria del premio, lo scorso ottobre, è stato un susseguirsi di imposizioni e allarmi: prima la moglie, ai domiciliari, poi è stato impedito ai fratelli di Liu Xiaobo, e al suo avvocato, di recarsi a Oslo in sua vece.

Nel mentre la stretta sulla rete e sulle persone fisiche non si è certo allentata, anzi. Arresti, fermi (dalla donna responsabile di un tweet non gradito, fino al blogger che ha posto on line una foto del 1989), l'arresto domiciliare di Ai Weiwei, artista e attivista cinese, bloccato in casa per non consentirgli di recarsi a Shanghai ad una festa ironica e polemica nei confronti delle autorità, l'arresto del padre di uno dei bambini morti per lo scandalo del latte, impegnato a scoprire la verità su quell'evento, per non parlare di quelli la cui chiave della cella è stata buttata chissà dove.

La macchina della propaganda non si è mai fermata: qualche settimana fa tutti i media ufficiali hanno diffuso un ritratto di Liu Xiaobo piuttosto diverso da quello esposto dai media occidentali, nel tentativo di precisare alcuni punti, seminando dubbi tra quella infima minoranza di pubblico cinese che conosce la storia di Liu Xiaobo: «Liu – era scritto – fa i soldi anche vendendo articoli per i media stranieri, criticando costantemente il Governo cinese. Guadagna soldi anche grazie a interviste e grazie ai vari premi che riceve dall'Occidente. La vità è piuttosto comoda per lui, tanto che un media occidentale ha sottolineato la sua casa elegante, piena di porcellane costose. «Io non sono come voi, non mi mancano i soldi, gli stranieri mi pagano ogni anno anche se sono in prigione», avrebbe detto Liu ad altri prigionieri».

Un tipo presuntuoso e antipatico secondo le autorità. Sicuramente solo, secondo molti altri.