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Cina e India: Giganti in transizione energetica

In Asia Meridionale, Cina, Sociale e Ambiente by Gian Luca Atzori

Attualmente, Pechino e New Delhi sono le uniche a precedere Washington per carbone prodotto e numero di centrali, ma la Cina da sola emette un terzo della CO2 globale: più di Usa, Ue e India messi insieme. Tuttavia, i colossi asiatici sono anche leader nella produzione di fotovoltaico, eolico e veicoli elettrici; producono beni esportati in tutto il mondo; non sono ne i principali inquinatori procapite ne, tantomeno, i primi responsabili delle emissioni accumulate negli ultimi secoli e decenni.

L’area asiatico-pacifica produce e consuma tre quarti del carbone globale e, attualmente, ospita 865 delle 1.002 centrali presenti nel mondo. Oltre il 70% dell’elettricità indiana proviene dal carbone e lo stesso vale per il 50% di quella cinese. L’Asia è anche il primo continente produttore di cemento e acciaio, tra le principali attività alla base della produzione di gas serra. Inoltre, mentre in Occidente si contrae, a Oriente la classe media si espande e le persone consumano sempre di più. Dal 1990 al 2020, l’Asia-Pacifico è passata da produrre un quarto delle emissioni globali a produrne la metà. Cina e India prevedono un picco di emissioni per il 2030 e un azzeramento, rispettivamente, per il 2060 e il 2070.

Studi e possibilità

Lauri Myllyvirta, analista del Centro di ricerca sull’energia e l’aria pulita, non considera “impossibile” la transizione proposta dagli scienziati cinesi e indiani entro questi termini. Per farlo, afferma sul The Economist la studiosa, “l’India dovrà installare rinnovabili al ritmo degli ultimi cinque anni, che è stato superiore di sei volte rispetto a quello del quinquennio precedente”. La Repubblica Popolare dovrà invece “installare quattro volte il solare e tre volte l’eolico che il mondo produce oggi”. Una quantità che il Partito Comunista potrebbe sopperire “raddoppiando il ritmo di crescita su rinnovabili e nucleare” che, entro il 2060, passeranno rispettivamente dal 17 al 67% e dal 3 al 19% del mix energetico nazionale.

Ciò sarebbe possibile grazie ai grandi piani de-cennali cinesi, ma anche per effetto della produzione di energia eolica, di pannelli solari e veicoli elettrici. Pechino è in parte già leader della green economy, e pone un veto su futuri progetti a carbone lungo la nuova Via della Seta, mentre secondo le stime di Bloomberg New Energy Finance, in alcune zone dell’India l’energia solare può costare oggi meno di quella fossile, il che rappresenta uno stimolo concreto per investimenti verdi a prescindere dagli obiettivi fissati dalla comunità internazionale. Tuttavia, “in questi Paesi le tensioni sono evidenti – sottolinea in un’intervista alla Reuters Leon Clarke dell’Università del Maryland – Da una parte, il carbone è un motore di sviluppo irrinunciabile, dall’altra è il target dell’azione climatica”. Sono infatti tra le principali problematiche di carattere geopolitico, economico e locale.

Scacchiere climatico

Sul piano geopolitico la situazione è ribaltata rispetto a quando Trump annunciò l’uscita degli Usa dall’Accordo di Parigi. Oggi è la Cina a essere il capro espiatorio e a non presentarsi alla Cop26, perché “per evitare che la temperatura terrestre cresca oltre il punto di non ritorno – ha specificato Leon Clarke – i colossi asiatici devono abbandonare il carbone entro il 2050”. La Cina è infatti l’unica potenza ad aver accresciuto il rilascio di gas serra dell’1,7% nell’anno della pandemia.

Sul piano finanziario, come riportato anche da The Economist, “il Covid ha esa-sperato i debiti e la spesa sociale di molte nazioni e aziende asiatiche”. Inoltre, in India come in Cina, “le banche statali sono intrappolate in prestiti non performanti, mentre la privatizzazione non è mai stata un tema popolare”, né per il nazionalismo indiano né per il comunismo cinese. Problematiche che si annidano nei contesti provinciali, dove il vuoto istituzionale è più profondo.

Problematiche domestiche

Censura e analfabetismo impediscono a chi è colpito dai cambiamenti climatici di sapere cosa siano o di collegarli alla propria condizione sociale, limitando la pressione popolare. La Cina può così portare avanti il piano di costruire 43 nuove centrali a carbone. D’altronde, come ammonisce Wang Jinan, presidente dell’Accademia cinese per la pianificazione ambientale, “molte aree credono che fino al picco del 2030 potranno aumentare senza sosta l’utilizzo del fossile”.

In India il carbone è vita per interi contesti locali (il 40% dei 736 distretti), non pronti a un cambio di paradigma. Nel subcontinente la lobby “nera” comprende 3,6 milioni di impieghi, 281 centrali, più di 700 miniere. Circa metà del fatturato delle ferrovie statali è dato dal trasporto del carbone, il quale finanzia 8 miliardi di viaggi l’anno. Una fonte di carriere per migliaia di imprenditori e ufficiali, e lo stesso vale per gli interessi fossili dell’acciaio e del cemento cinese.

Variante nera

Attualmente, Pechino e New Delhi sono le uniche a precedere Washington per carbone prodotto e numero di centrali, ma la Cina da sola emette un terzo della CO2 globale: più di Usa, Ue e India messi insieme. Tuttavia, la gran parte delle emissioni attuali sono state accumulate da Europa (33%) e Nord America (29%) negli ultimi secoli, e non da Cina (12,7%) e India (3%). Dal 1960, migliaia di imprese hanno delocalizzato prodotti ed emissioni in Oriente, mentre buona parte delle venti imprese più inquinanti sono occidentali.

Ad oggi, considerando che il subcontinente indiano e la Repubblica Popolare ospitano il 35% della popolazione mondiale, il dato procapite mostra come, in media, un cinese inquini la metà di uno statunitense, mentre un indiano inquini un terzo di un italiano. E così, mentre molti Paesi asiatici chiedono tempo o supporto finanziario, l’alternativa è l’abbandono del target climatico o della crescita economica. Due soluzioni critiche.

di Gian Luca Atzori
Pubblicato su La Nuova Ecologia, mensile di Legambiente

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