l governo cinese ha investito credibilità e prestigio nel mercato azionario. Le azioni messe in atto per tamponare la crisi non hanno dato i risultati sperati. L’unica opzione rimasta per evitare che il panico si diffonda sembra essere quella del silenzio.
“Le condizioni attuali dell’economia globale sono complesse e sconcertanti. Ci sono sostanziali fluttuazioni del mercato che si ripercuotono sull’economia cinese”. Così ha parlato il premier cinese Li Keqiang, dopo quasi 48 ore di silenzio dal “lunedì nero”. Il 24 agosto, dopo due mesi di estrema volatilità, la borsa di Shanghai perde l’8,5 per cento. È il crollo più importante dal 2007 e il panico si diffonde velocemente su tutti gli altri mercati tanto che quando apre il Dow Jones perde 1100 punti nei primi sei minuti. A una settimana di distanza la situazione continua a deteriorarsi. Ma qual è stata la causa scatenate? Gli analisti di tutto il mondo pensano sia da mettere in relazione al rallentamento dell’economia cinese ma sui media del paese, fortemente controllati dal governo, non c’è uno straccio di spiegazione. Anzi.
La sera del 24, quando la stampa internazionale apriva con il disastro finanziario che si propagava dalla Cina al resto del mondo, l’agenzia di stampa Xinhua, la televisione di stato Cctv e il Quotidiano del popolo non facevano neanche accenno alle borse. Le ricerche su Baidu, il motore di ricerca dell’ex Impero di mezzo, davano risultati parziali a cui si accompagnava il ben noto pop up che segnala che “alcuni risultati sono stati omessi per rispetto delle politiche pertinenti”. Stesso risultato sui social network cinesi. Alcuni media più indipendenti, davano la notizia in poche righe, senza affrontare la causa del fenomeno se non adducendo vaghe ragioni internazionali e alla “paura dei mercati che l’economia globale stesse per rallentare in maniera drammatica”.
Anche il giorno seguente, per il Quotidiano del popolo era come se non fosse successo nulla. In prima pagina lo straordinario sviluppo economico del Tibet e i preparativi per la grande parata militare per festeggiare i 70 anni dalla fine Seconda guerra mondiale e la vittoria sul Giappone. Niente neanche sulle 24 pagine del giorno dopo, anche se un paio di articoli accennano alla decisione della Banca centrale cinese a tagliare i tassi di interesse (per la quinta volta in nove mesi, ma questo non era specificato) e alla fiducia espressa dal premier sull’economia nazionale nonostante “la volatilità dei mercati globali”.
Intanto su alcuni siti specializzati sono filtrate le direttive diramate dalle autorità ai mezzi di informazione: cinque specifici articoli dovevano scomparire e in generale si vietavano “le speculazioni, le analisi approfondite e le interviste agli esperti”. Inoltre bisognava evitare di cavalcare sentimenti come panico e tristezza ed evitare parole dal contenuto fortemente emotivo come crollo e collasso. Il rispettato settimanale economico Caixin si è schierato in favore di un suo giornalista che è stato arrestato per aver scritto un articolo sulle borse che non coincideva con la versione fornita dal governo. Poi ha confessato in tv: se le borse erano crollate era stata anche colpa sua.
Una dimostrazione che i vertici politici della Cina erano preoccupati tanto quanto quelli del resto del mondo, ma non avevano ancora deciso come muoversi e quale spiegazione avrebbero offerto al popolo cinese e a quei 90 milioni di investitori che avevano invogliato a investire nei mesi precedenti. Quando la bolla delle borse cinesi è esplosa per la prima volta a giugno, la macchina della propaganda aveva invitato i cittadini a continuare a comprare. Bisognava “assumersi il rischio per il [bene del] paese”.
Il punto, oltre che economico, è politico. Il governo cinese ha investito credibilità e prestigio nel mercato azionario. Il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang avevano affermato a più riprese la volontà che il mercato azionario foraggi maggiormente la finanza d’impresa. Inoltre, le azioni messe in atto per tamponare la crisi sono l’antitesi dei loro proclami di inizio mandato, quando – per la prima volta nella storia della Repubblica popolare – hanno auspicato che le forze di mercato giocassero “un ruolo decisivo” nell’allocazione delle risorse. Per ora nessuna strada tentata dal governo è riuscita ad arrivare ai risultati sperati. E l’unica opzione rimasta sembra essere quella del silenzio.
[Scritto per il Fatto Quotidiano]