C’era una volta in Vietnam

In by Gabriele Battaglia

L’esperienza della migrazione, il Vietnam dell’infanzia sotto le bombe e il Vietnam in tumulto di oggi, alle prese con uno sviluppo non sempre sostenibile. Poi il Vietnam del futuro, una pagina "bianca", più intima, ancora da scrivere. La vicenda del Paese si intreccia a quella della protagonista di Nidi di rondine di Kim Thúy pubblicato da Nottetempo. Una recensione.
Leggi un estratto del libro

Da profano delle letterature dell’Asia orientale, mi ritorna alla mente un componimento erotico – non so in realtà quanto celebre – della poetessa vietnamita Hô Xuân Huong (1772-1822), tradotto in italiano con il titolo L’albero del pane:

«Il suo corpo / È come il frutto sull’albero del pane / La sua scorza è ruvida, ma la sua polpa soda. / Se voi l’amate, o mio signore, piantatevi il vostro bastone / Non accarezzatelo troppo, o il suo succo vi colerà sulle dita».

Sradicati dal loro tempo, bottino di quella filologia avulsa di cui sono vittime spesso le estrapolazioni erudite, questi versi di Hô Xuân Huong sembrerebbero rappresentare al meglio il feticcio di una tentazione: immaginare, o meglio, rappresentare un Vietnam letterario – e quindi sociale, politico – remoto, in cui i bisogni primari, quali cibo e sesso, sono la cifra naturale, tessuto vivo della poesia.

Ovviamente non è così, ma è più facile pensarla così. In verità, i discorsi amorosi di Hô Xuân Huong hanno rinnovato per sempre la letteratura di quella parte di mondo, le hanno conferito autonomia in aperta contrapposizione con il dominio culturale cinese, e hanno trasformato la loro autrice in una beniamina ante litteram dei marxisti vietnamiti del Ventesimo secolo.

Viaggiare dotati di mappa geografica, oppure a occhi chiusi nella selva degli echi letterari, sono due modalità che possono vantare entrambe nobili tradizioni. Specialisti e accademici a parte, temo tuttavia che il grande pubblico in Italia abbia conosciuto assai poco della letteratura vietnamita, anche di quella contemporanea, tranne forse il fortunato caso di Nguyên Huy Thiêp, assai tradotto in buona parte dell’Europa.

E poi ci sono i figli delle tante diaspore, che scrivono in un’altra lingua, e che narrano la terra della loro nascita dalle finestre dell’Australia, degli Stati Uniti, o del Canada. È questo il caso di Kim Thúy di cui Nottetempo ha pubblicato in traduzione il suo Nidi di rondine, dopo il successo mondiale, qualche anno fa, di Riva.

Nata nel 1968 nella città conosciuta un tempo con il nome di Saigon, in pieno conflitto, ne fugge via dieci anni dopo. Approda in Canada, a Montréal, dove Kim Thúy e la sua famiglia tentano di ricostituire un embrione di comunità, come avevano fatto prima di loro altri connazionali. Una vicenda biografica buona per le agiografie a venire: due lauree (traduzione e diritto), carriera da interprete e da avvocato, un ristorante di cucina vietnamita, la scoperta della vocazione per l’arte gastronomica, e quindi la scrittura.

Una biografia, appunto, che non dissuona da altre simili, dove la combinazione degli ingredienti – è proprio il caso di scrivere – persegue un paradigma ben temperato, così come richiesto molto spesso dalle case editrice di mezzo mondo. Eppure su tutto questo sembra incombere un’ombra, quasi una triplice reminiscenza dickensiana, e cioè lo spirito del Vietnam presente, di quello passato e immancabilmente di quello futuro.

La breve rubrica in cui si può raccogliere la trama del libro è presto detta. Mãn, la voce narrante del romanzo, è stata figlia di tre madri. La prima l’ha portata in grembo sotto le bombe, la seconda, una monaca, l’ha raccolta in un giardino, la terza l’ha cresciuta, coniugando la propria militanza vietcong con le tradizioni familiari. Per questo Mãn viene promessa in moglie a un ristoratore vietnamita emigrato in Canada, che la condurrà con sé nel proprio locale, e nella cornice di un’esistenza nuova.

Da quella terra di passaggio rappresentata dalla cucina, dal cibo, Mãn tenta numerosi ritorni a casa, seppur con il solo slancio impalpabile della memoria.

Per questo, nella sua percezione adulta, tutto il mondo, compreso quello visitato nelle vesti di una cuoca di fama, è Vietnam. Ma quale dei tre? Il Vietnam del passato è teatro d’infanzia, ma non solo per Mãn, bensì per un intero popolo. I vietnamiti hanno conquistato una propria fragile autonomia dopo trent’anni di guerre, liberi dall’oppressione, dallo sfruttamento, ritornati di nuovo in possesso di una dignità antica, che si è conservata più forte di prima nel sacrificio estremo della resistenza. L’immagine mitica della madre ‘spia’, la dolcezza nell’asprezza della guerra, sono i passi futuri che lasciano la loro impronta nel cammino del passato.

Il Vietnam del presente è quello silenzioso delle lettere rare giunte da casa. Un paese che sta mutando volto, alla ricerca di un agio proprio, anche se il colosso cinese – così tanto odiato – sembra imporre di nuovo il ritmo della storia. E c’è poi il Vietnam del futuro – inteso come futuro della personale vicenda di Mãn –, pagina bianca del libro di Kim Thúy, ma non per questo neutrale.

È il Vietnam di oggi, sospeso in una energica riforma del capitalismo di stato, cantiere in feroce progresso con gli agglomerati urbani di Hanoi e Ho Chi Min City, le case sottili come tronchi d’albero, in cui a essere sovrapposti non sono gli appartamenti ma le singole stanze. Il paese con la manodopera meno cara forse dell’intera Asia orientale, con i dazi doganali più bassi.

Eppure il Vietnam è anche la frontiera di una dissidenza antica, che parla ancora con la voce dei padri fondatori, come quella del compianto generale Vo Nguyen Giap, il quale ebbe a dire qualche anno fa come la ‘cinesisazzione’ del suo Vietnam rappresentasse una deviazione crudele, e per questo pericolosa. Diceva di non essere contento (parlava dunque di felicità, contentezza, qualcosa che forse è moralmente più complesso della sola soddisfazione politica) di come il sacrificio di due generazioni, almeno, si fosse sedimentato in qualcosa che non gli sembrava più una società di uomini liberi, una nazione giusta e ugualitaria.

L’asservimento del suo popolo alle nuove divinità pechinesi, ha scatenato nella voce autorevolissima di Giap la formula beffarda che fu della Medea di Seneca: «cui prodest scelus, is fecit», ovvero «ha commesso il crimine colui al quale esso arreca vantaggio». Dietro l’inquinamento perpetrato dalle industrie cinesi e gli esiti letali di quest’ultimo (come l’estrazione selvaggia di bauxite), Giap adombrava – seppur per metafora – i bombardamenti dei B52, la luminescenza del Napalm, la sottile e mortale azione dell’Agente Orange. Come è facile, talvolta, annodare il futuro al passato.

Una buona recensione dovrebbe rappresentare, di fatto, anche un sensato consiglio di lettura. Tentavo di spiegare nelle prime righe come la biografia di Kim Thúy (che certo avrà ispirato quella della protagonista del suo romanzo) si presti bene alla riproposizione di un ‘tipo’ editoriale. Forse è così, tuttavia più di un seme è nascosto sotto la neve.

In una misura quotidiana, microscopica, la breve saga privata di Mãn e dei suoi cari, racconta – e riflette – la storia recente di un popolo, le sue contraddizioni, la rincorsa fallita verso l’edificazione di un ideale di uguaglianza e di giustizia sociale. Gli occhi di Mãn sono il filtro di una vicenda globale, a suo modo, e il suo bisogno minimo – la sua fame, e la capacità di trasformare quest’ultima in una forma d’arte – un modo per rimanere legati alla propria nascita, che è sì un evento casuale, ma per questo irriducibile e insieme identico ad altri.

La cucina (l’enciclopedia dei sapori che hanno contraddistinto le lotte di cui siamo stati semplici testimoni o ispirata avanguardia) è un luogo dove rifugiarsi, un frammento di casa che si dilata, e accoglie ogni rifugiato con la stessa cura, la stessa puntualità egualitaria. Nella cucina di Mãn ci sarà tempo anche per il tradimento del proprio marito vietnamita, ma al di là delle evenienze secolari, interessa soprattutto il modo in cui tutto questo viene raccontato.

L’affresco infatti si compone di tratti piccoli, pagine brevi, capitoli monocellulari, postillati da una parola vietnamita (collocata a latere del testo) che ne è il centro semantico. Un ordine frammentato che pullula di atomi di passato e presente, di richiami a un senso e poi a un altro giunto in soccorso (l’udito alla vista, il gusto al tatto, ecc.) in una sorta di concatenazione analogica, poiché in fondo è impossibile raccontare una storia da un’unica prospettiva, soprattutto se questa è imposta dalle conformità di un sistema rigido.

Allo stesso modo è impossibile pensare di narrare una singola vita in un’unica soluzione, poiché il suo procedere risente dei passi altrui (anche di quelli che sono defunti), della fame e dei mille altri bisogni di cui ciascuno è portatore: «Quando i vietnamiti si incontrano, i due argomenti con cui ha inizio la maggior parte delle conversazioni sono il villaggio di origine e l’albero genealogico, perché noi crediamo fermamente di essere ciò che i nostri antenati sono stati, e che i nostri destini rispondano alle storie delle vite che ci hanno preceduti».

In una simile rappresentazione del limite, anche la letteratura – tutta la letteratura – gioca un ruolo fondamentale nella formazione sentimentale della piccola Mãn:

«In mezzo ai raccolti, avevo tratto la parola “tedio” da Buongiorno tristezza di Françoise Sagan, “languore” da Verlaine e “penitenziario” da Kafka. La Mamma mi aveva spiegato anche il senso della finzione narrativa attraverso una frase dello Straniero di Albert Camus: “La sera Marie è venuta a prendermi e mi ha domandato se volevo sposarla” – per noi, infatti, era impensabile che una donna potesse manifestare questo desiderio».

E ancora, in una efficace accelerazione drammatica:

«Senza conoscere l’inizio né la fine della sua storia, consideravo un eroe Marius dei Miserabili, perché una volta la nostra razione mensile di cento grammi di maiale era stata incartata dentro a queste parole: “La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi; oscuri eroi talvolta piú grandi degli eroi illustri”».

Di tutte le parole con cui Kim Thúy ha postillato il suo romanzo, me ne viene in mente una in particolare: catastrofe, che è poi quella che chiude l’intero libro. Prima di essere tale, per così dire, la catastrofe è anche la parte della tragedia in cui avviene lo scioglimento dell’intreccio, la rivoluzione delle parti sulla scena. Intuizione erudita che mi porta a riconsiderare l’etimologia di ‘catastrofe’, voce dotta ricalcata sul greco katastrepho, ovvero ‘rivolto, rovescio, risolvo’.

Il bello è che – come spesso accade nella Storia – la catastrofe preconizzata non arriva. La rivoluzione ultima, la scomposizione cioè del proprio nucleo familiare in virtù di un amore nuovo, non ci sarà. Il desiderio rimarrà clandestino nella terrra della propria riparazione. In fondo, nemmeno Saigon si chiama più così: «La lingua vietnamita non conosce tempi verbali. Tutto si dice all’infinito, al tempo presente. Quindi per me era facile dimenticare di aggiungere “domani”, “ieri” o “mai” alle mie frasi». 

[Foto credit: theglobeandmail.ca]

*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio e di cultura cinese, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni). Ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets) e In Giappone. Scrittori italiani alla scoperta del Sol Levante (Ets), di prossima uscita.