Brevetti: dal made in China al designed in China

In by Simone

Pechino vuole passare dal Made in China al Designed in China.
La corsa ai brevetti coinvolge tutti, anche la popolazione carceraria, a cui vengono promessi sconti di pena. L’obiettivo è arrivare a 2 milioni di brevetti nel 2015, e al doppio nel 2020. E su 40 mila casi di contenziosi aperti sulla proprietà intellettuale, solo il 10 per cento vede coinvolti brand stranieri. I cinesi insomma cominciano a copiare anche se stessi.
Incentivi ai carcerati attraverso sconti di pena, (la cui entità però non è stata resa nota dalle opache autorità cinesi) purché depositino brevetti. E in nome dei tanto agognati brevetti scattano anche benefici ai singoli cittadini per agevolare cambi di residenza, pratica piuttosto densa di difficoltà per un cinese a causa del sistema dell’hukou, cioè il certificato di residenza diverso per chi abita in città o campagna (ad esempio chi si trova a Pechino ma ha un hukou rurale, non gode degli stessi diritti dei residenti pechinesi). Stiamo quindi parlando di aiuti alla popolazione, in cambio di brevetti che sostengano la pianificazione della Nuovissima Cina. Quella che cambia di posto – o tiene al minimo indispensabile – le funzioni di fabbrica del mondo, per puntare decisamente sull’innovazione. Dal Made in China al Designed in China. Si tratta di uno scarto al quale il gigante asiatico sta facendo la bocca da tempo, spingendo ogni abitante del suo territorio a inventare, creare, proporre brevetti.

La Cina, mentre legge gli anatemi internazionali contro le copie dell’Ikea o degli Apple Store, ha messo in piedi un piano da qui al 2020 che pone numeri, uno in fila all’altro, come fossero un ordine proveniente dal Cielo. Ovvero dal Politburo, il centro nevralgico del controllo cinese. Small potatoes, diranno forse gli ingegneri – che reggono il paese e hanno studiato l’America (in America per altro) – di quelle aziende che fanno definire alla stampa internazionale la Cina come la patria del fake, mentre un sistema di brevetti e di protezione della proprietà intellettuale sta spingendo il paese in un altro campo dello schieramento.

La Cina, per quanto piaccia o meno, cambia, si muove, si trasforma: «Se immaginiamo la filiera che va dalla creatività ai servizi, la Cina sta occupando il punto più basso in termini di margini, ovvero la produzione. Da tempo il governo cinese ha messo nel mirino le fasi di creazione e dei servizi» spiega Carlo Pandolfi, leader di un team dell’Unione Europea che collabora a stretto contatto con il ministero della scienza e tecnologia cinese in tema di intellectual property. Progetto sul quale la Ue ha investito 16 milioni di euro, recentemente conclusosi ma già indicato a proseguire.

C’è anche la benedizione postuma di Deng Xiaoping, colui che ha aperto le finestre cinesi ai capitali dei laowai (gli stranieri), nel documento del governo cinese in cui si specificano le caratteristiche che dovrà avere il sistema dei brevetti nell’Impero di Mezzo. Si intitola National Patent Development Strategy: chiaro, senza la consueta retorica dei documenti politici, mira al punto saliente, lo sviluppo socialista e scientifico del paese, concedendo spazio anche al concetto di armonia, mantra dell’attuale presidente – e soprattutto segretario del Partito – Hu Jintao. Se nel 2010 la Cina ha prodotto 320 mila brevetti (invenzioni, moduli di utilità o design industriale) l’obiettivo nel 2015 è arrivare a 2 milioni, nel 2020 a 4 milioni. Oggi come oggi in Cina vengono prodotti 228 brevetti ogni milione di abitanti. Nel 2015 saranno 700: in Italia, attualmente, sono 133. Popolazione sconfinata (un miliardo e quattrocento milioni in base all’ultimo censimento), incentivi economici e sociali: grazie alla sua forza economica, la Cina sembra avvantaggiata rispetto a tutti.

Sottolineando il fatto che fino al 1985 in Cina non esisteva una legge sui brevetti, l’Economist nell’ottobre 2010 si era occupato della nuova attenzione del dirigismo cinese alla questione dell’innovazione, mettendo in evidenza come quantità non significhi necessariamente qualità. «I cinesi lo sanno» specifica Carlo Pandolfi «e infatti hanno cominciato a ragionare in tema di intellectual property su alcune barriere, richiedendo nuovi passi alle aziende locali, ad esempio per diventare marchio nazionale». Per ottenere la categoria «marchio nazionale», i brand cinesi devono superare alcuni parametri, come ad esempio dimostrare di avere un certo numero di quote di mercato.

L’altro lato della medaglia coinvolge i brand stranieri. Un processo di attenzione allo sviluppo di innovazione nazionale non può non avere al suo interno anche controlli ferrei su marchi esteri, quando non proprio delle vere e proprie barriere all’entrata. Per diventare un marchio nazionale in Cina, un brand straniero deve fare i conti con delle procedure piuttosto lunghe, finendo in alcuni casi per ovviare con pagamenti di penali. Apple per registrare iPhone all’interno dei marchi nazionali cinesi ha sborsato 3 milioni di dollari. Il caso italiano più eclatante era stato quello della Ferrero: in Cina dal 1979 non aveva depositato il marchio, finendo per dover sopportare tre diversi passaggi in tribunale prima di ottenere la nomea di «marchio nazionale» e potersi finalmente difendere dalle tante copie cinesi.

Secondo Stephen Yang, della Peksung Intellectual Property Ltd, sarebbe invece giunta l’ora di chiarire le difficoltà dei marchi stranieri in Cina. In un articolo sulla World Intellectual Property Review Digest del 2010 Yang specificava, andando contro le lamentele di molte aziende straniere, che «le statistiche pubblicate dal China Intellectual Property Office dimostrano che il tempo attualmente impiegato dalla China Intellectual Property Office per decidere sulla richiesta di una licenza straniera è molto breve. Tra il 2009 e il 2010 sarebbero state processate oltre 30mila richieste, con una media di due settimane di attesa. Il 99,83% di queste richieste è stato accettato».

Ci vuole tempo, si dice, intanto alcuni dati dimostrano la buona volontà cinese: su 40 mila casi di contenziosi relativi alla proprietà intellettuale in Cina, solo 4mila vedono coinvolti brand stranieri. I cinesi cominciano ormai a copiare se stessi. La giustizia locale fa quel che può dato che i tribunali cinesi sono avanzatissimi in termini di conoscenza delle problematiche. La questione semmai è la natura del reato, che è civile. A molte aziende conviene pagare una multa e tornare ad operare nell’illegalità consentita dalle tante zone grigie della Cina, il cui problema principale in questa stagione è affrontare le linee nervose che collegano il centro alla periferia.

Sforzi messi in evidenza da documenti e dai tentativi di irradiare alle autorità provinciali le decisioni prese a Pechino, che però non hanno soddisfatto granché gli Usa. Tutt’altro. Nel balletto mondiale delle due super potenze, spicca un documento realizzato nel maggio del 2011 dalla Commissione del commercio internazionale degli States, in cui vengono enumerati tutti i danni alla propria economia a seguito del mancato rispetto della proprietà intellettuale da parte della Cina. Oltre ai miliardi di dollari spicca un dato: secondo la ricerca, senza le furbizie cinesi, gli Usa potrebbero assumere 9 milioni di lavoratori in totale (FTEs, ovvero a tempo pieno).

Nel libro The Party: The Secret World of China’s Communist Rulers il giornalista Richard McGregor intitola un capitolo China Inc. (riprendendo il noto China, Inc.: How the Rise of the Next Superpower Challenges America and the World di Ted Fishman) ad indicare il peso che il Partito ha nella guida economica, oltre che politica del paese. Non si allude ad una generica influenza, bensì ad un vero e proprio controllo, esercitato da persone, intelligentemente mascherato all’estero (specie quando aziende statali cinesi si affacciano a Wall Street). Negli ultimi tempi le strade da intraprendere sono state indicate con estrema certezza, a partire dal peso dato alla proprietà intellettuale per finire nell’attenzione sviluppata in alcuni settori. Dai documenti realizzati dal governo in materia di innovazione emergono alcuni settori privilegiati: quello farmaceutico, l’aerospaziale, l’energia, i trasporti e l’elettronica.

Uno sforzo suffragato da altri tentativi di accompagnare culturalmente, attraverso manovre di softpower, questo passaggio storico. Dal tentativo di acquisire Newsweek, agli incentivi al cinema locale con un occhio al mercato estero, fino ad arrivare ad alcuni gioielli di famiglia come la Huawei e alla straripante presenza degli istituti Confucio in tutto il mondo, la Cina sente il peso di tornare là dove era sempre stata, al centro del mondo.

[Scritto per LINKiesta]