Beijing Design Week – Zhang Ke

In by Gabriele Battaglia

Come riqualificare gli spazi che già esistono, renderli vivibili ma mantenerli integrati nel tessuto sociale del quartiere? Il “Micro Hutong” è di fatto la ristrutturazione di un vecchio, minuscolo, pingfang per renderlo abitabile da due famiglie. Con Zhang Ke si parla di sostenibilità, innovazione, biodiversità e nuova urbanizzazione, Il progetto di Zhang Ke per la Beijing Design Week si trova nel quartiere di Dashilar, la centralissima area della vecchia Pechino dove è in corso un enorme processo di ristrutturazione che non vorrebbe però significare “distruzione e ricostruzione ex novo.
Come riqualificare gli spazi che già esistono, renderli vivibili ma mantenerli integrati nel tessuto sociale del quartiere? Il “Micro Hutong” è di fatto la ristrutturazione di un vecchio, minuscolo, pingfang (casette sorte dal frazionamento delle vecchie case a corte) per renderlo abitabile da due famiglie. Al lavoro, carpentieri più che muratori, perché Standard Architecture – lo studio di Zhang – ha scelto una soluzione composta da cubicoli di legno sovrapposti che creano diverse “camere”. Immediatamente dietro la facciata, che è ricoperta di materiali recuperati nel quartiere, si trova una sala che sarà adibita a spazio pubblico di incontro e di discussione. L’edificio sarà attraversato da un corridoio che metterà in relazione la strada con l’interno della casa a corte.

Fendendo la polvere sollevata dai lavori, l’architetto perlustra il mini-cantiere con Fu Haijun, fondatore di Camerich, un mobilificio fortemente orientato al design che è ormai una potenza nazionale e internazionale. E lui, il boss, è per Zhang Ke qualcosa di più di uno sponsor:
“Con Fu condividiamo i valori, le idee e il processo creativo; è più di un mecenate, perché anche lui produce design. Ha un team che analizza l’edificio e insieme discutiamo l’intero progetto”.

Come è arrivato al Micro Hutong? Che significato ha nel suo percorso?

Il primo progetto della mia carriera, la ristrutturazione del parco presso le fortificazioni Ming di Dongbianmen, è stato il mio unico lavoro urbano ed è del 2001-03. Da allora ho fatto solo progetti rurali. Oggi, dopo dieci anni, torno in città. È un ritorno interessante e anche difficile, perché per lavorare in città ci vogliono tantissimi permessi e soprattutto investimenti. E qui siamo tra l’altro in un contesto no profit. Tuttavia, per la sua collocazione, la tipologia e la scala – la più piccola con cui ci siamo mai misurati – questo lavoro può diventare importante ed essere fonte d’ispirazione. Qui a Dashilar abbiamo considerato sfide molto diverse tra loro, c’erano anche grandissime aree in cui si trattava di suddividere grandi case a corte in lotti più piccoli, ma alla fine abbiamo scelto questo piccolo spazio.
Per il rinnovamento urbano questa scala così piccola ha infatti un significato universale, perché in tutto il mondo, se lasci fare agli sviluppatori immobiliari, il rinnovamento si traduce nella demolizione di un metro quadro per ricavarne tre. Quindi il nostro problema diventa: è possibile lavorare lasciando perdere l’area? Abbiamo cercato di creare qualcosa di nuovo senza necessariamente moltiplicare per tre. E soprattutto non abbiamo fatto qualcosa per profitto, bensì nell’interesse della gente e della comunità. Lo scopo è quello di proporre una diversa idea di spazio, di modo che la gente possa sentirsi coinvolta.

Qual è dunque la reazione della gente di Dashilar?

Credo siano sia curiosi sia sospettosi, anche perché hanno sempre avuto a che fare con i developer che fondamentalmente pensano al denaro. Credo che si faranno un’idea più chiara quando arriveranno i mobili di scala ridotta del signor Fu e poi quando lo spazio pubblico all’interno della casa sarà a disposizione. Così potremo invitare altri artisti nell’area e l’interazione potrà continuare. Mi stanno per esempio molto a cuore i futuri workshop con i bambini della scuola locale.

Che tipo di spazio pubblico è necessario creare in quest’area?

Quello che qui manca è la mutua fiducia tra la gente e la immobiliare che intende trasformare l’area (Beijing Guang Holdings), ma c’è un aspetto incoraggiante: lo sviluppatore ha capito che qui non è il caso di radere al suolo e ricostruire tre, quattro piani di spazi vuoti.
Ti racconto una storia. Sul retro del nostro Micro Hutong, c’è la casa di alcuni vicini. Non hanno voluto che aprissimo una finestra sul nostro muro che dava sul loro, perché così “gli guardavamo in casa”. Poi scopri che nella famiglia il figlio è disoccupato, il padre è in pensione e tutti quanti vivono con 1.900 RMB al mese, reddito di circa cento yuan superiore al livello minimo, che ti garantirebbe il sussidio statale. Ora, se noi riusciamo nel nostro progetto, se apriamo la corte alla strada e restauriamo le due cucine dismesse che ci sono all’interno, forse loro potrebbero cucinare cibo per i turisti e ricavarci un reddito.
Questo significa che non si tratta solo di creare architettura “bella”, ma di adattarla al contesto sociale e di renderla utile per la gente che ci vive. Abbiamo visto troppe ristrutturazioni “belle” che fanno sparire la gente.
Chiamiamo questo progetto “Micro Hutong” perché non vogliamo produrre lusso per privati, bensì uno spazio pubblico in cui la gente può entrare. Per questo abbiamo scelto di aprire le porte sul retro, di modo che si crei un corridoio che possa essere attraversato. Abbiamo lo spazio in affitto per 10 anni, vediamo come evolve.

Dato che lei lavora integrando i suoi progetti con l’ambiente circostante, avrà un’idea interessante sulla sostenibilità.

La sostenibilità non è solo il progetto di una casa, bensì un’idea complessiva. E non è solo un’idea, ma anche è una necessità. C’è gente che costruisce edifici orribili, etichettati però come “sostenibili” perché pieni zeppi di tecnologie sdoganate come tali. Il punto è far combaciare sostenibilità e creatività in modo che serva anche da ispirazione. Per esempio, nei nostri progetti in Tibet abbiamo usato soprattutto materiali locali, come le pietre. Questo è il modo migliore per radicare l’edificio nel territorio. Oggi va per la maggiore una filosofia globalizzata, invece l’architettura è un discorso locale: vai sul posto, vedi com’è, prendi lì i materiali imparando magari dalla gente del luogo – in Tibet hanno costruito per centinai di anni usando i materiali e le tecnologie disponibili – e vedi se è possibile fare dell’architettura contemporanea partendo da queste basi materiali.

A questo punto vorrei farle una domanda sulla biodiversità. In Cina si impongono spesso dei modelli economici e poi urbanistici e architettonici unici. Come si preserva la biodiversità, in un contesto del genere?

È una questione di approccio. Se consideri l’architettura come un’industria, tendi al mainstream. Se la consideri come la letteratura, il cinema, la musica autoprodotti, come un aspetto della cultura contemporanea, ti muovi su pratiche più indipendenti e alternative. La notizia buona è che in Cina sempre più studi architettonici scelgono questa strada. Oggi perfino le grandi imprese mainstream creano al proprio interno i cosiddetti “studi creativi”, anche se il loro limite è il profitto. Nel senso che la loro filosofia impone prima di tutto che si persegua quello, per cui hanno un limite invalicabile e il “fare soldi” è ciò che divide lo studio mainstream da quello indipendente. Sul piano più generale credo che in Cina, oggi, non ci siano abbastanza architetti. Quindi la maggior parte ha troppo lavoro da fare e in queste condizioni è facile scivolare verso il mainstream, perché a quel punto crei uno studio da duecento persone e diventi un’impresa. È necessario non diventare troppo grandi, quindi cedere progetti ad altri invece di prenderne troppi; e scegliere bene i collaboratori. Con Fu Haijun funziona bene perché Camerich sponsorizza la qualità dei progetti perché hanno valore sociale, anche se non restituiscono profitti immediati. Credo che oggi la situazione sia florida perché sempre più imprenditori rivelano questa sensibilità.

Si riferisce anche agli sviluppatori immobiliari?

No, per carità, quelli in genere sono famelici. Ce n’è di buoni e di cattivi, ma sono pur sempre palazzinari. Mi riferisco agli imprenditori come il signor Fu e anche a molte aziende delle nuove tecnologie. Investitori privati, un po’ come successe per il Bauhaus in Europa: quando raggiungono una certa potenza economica, si rendono conto dell’importanza delle forza creativa. Il governo ci mette molti soldi, ma c’è bisogno di più talento non-mainstream, perché il governo vuole vedere risultati subito. Invece ci vuole accumulazione di massa critica in un luogo specifico, come per esempio succede a Milano durante la settimana del design. I soldi non arrivano dall’alto in basso, ma da tutto l’ambiente circostante.

Questo ci porta al tema dell’innovazione. Lei ha sperimentato anche dal punto di vista del metodo di lavoro un modello nuovo. Ce ne vuole parlare? Si dice poi che in Cina ci siano tanti soldi e buoni propositi, ma ancora qualche difficoltà a produrre innovazione. Qual è il problema?

Da Standard Architecture sono a oggi nati due nuovi studi d’architettura e qualcun altro sta per nascere.
Il nostro studio è un po’ come un incubatore, ma senza l’ansia di creare profitto da subito. Per promuovere la cultura del design, la cerchia degli architetti cinesi deve ampliarsi e diventare più diversificata, ci vuole più competizione ad alto livello. Nel Rinascimento c’erano Leonardo, Michelangelo e Raffaello, ma intorno a loro c’era un livello diffuso estremamente alto. Non bisogna ragionare in termini egoistici e trattenere quelli bravi, perché se tu offri alle persone di talento la possibilità di avere successo, attirerai altre persone di talento. Quindi incoraggio quelli bravi a creare il loro studio e così facendo ne attiro altri. È un meccanismo virale.
Aiutiamo i nuovi studi dando loro alcuni dei nostri progetti, su cui possono lavorare in maniera semi-indipendente. Cominciano prendendosi il 30 per cento dei profitti, poi il 40, il 50, il 70, finché diventano indipendenti a tutti gli effetti. In Cina, i costi stanno salendo molto velocemente e, se non facessimo così, loro entrerebbero nel circuito mainstream. Ma se lavori per dieci anni in quell’ambiente, non ne esci più.

Oggi il nuovo pensiero mainstream, il quadro materiale nel quale si muoverà la Cina dei prossimi anni, si chiama chengzhenhua (urbanizzazione delle città medio-piccole): si è fatto un’idea di che cosa significhi? A un architetto indipendente come lei, quali opportunità e quali sfide offre?

L’urbanizzazione che c’è stata finora è brutale. Provoca il problema sociale dei migranti senza diritti e quello relativo al territorio, con la riduzione dei terreni agricoli. Dato che lo spazio residuo è limitato e non si può divorare altro territorio, dobbiamo oggi concentrarci sugli spazi interni della città: sul problema della densità.
Questa densità deve diventare più qualitativa. Quindi bisogna ridefinire gli spazi interni: risolvere per esempio il problema dei trasporti pubblici, rendere più confortevole l’abitabilità e così via. L’esempio è Hong Kong.
Bisogna poi lavorare sull’integrazione tra città e campagna. L’installazione Village Mountains che abbiamo fatto all’Università Statale di Milano voleva proprio invitare alla riflessione su questo rapporto. Credo sia possibile creare spazi che siano sia agricoli – una campagna produttiva – sia urbani. Il modello che la Cina ha perseguito nei vent’anni trascorsi non è più sostenibile: divora troppa terra per creare sistemi urbani non efficienti. Si è speso molto senza una visione complessiva. Più che un’opportunità, questa nuova urbanizzazione è quindi una grande sfida. Bisogna investire sull’agricoltura e sulle infrastrutture, ma c’è sempre il rischio che questa diventi una buona scusa per distruggere.
Come attirare 400 milioni di abitanti rurali in città, facendoli diventare forza lavoro urbana, se non rendendo la città vivibile e attraente per loro? E come mantenere al tempo stesso un equilibrio tra città e campagna? Il problema della chengzhenhua è più di design sociale che di design fisico.