Ai Weiwei, chi era costui

In by Simone

Quando ho incontrato Ai Weiwei la prima volta, sono uscito dal suo ufficio, il Fake Studio, con un sentimento che univa in unico ritratto il fascino del personaggio, insieme ad una sorta di idealismo che mi appariva disincantato e artistoide, al riparo da danni veri. Era il 2009.

A dicembre del 2010 sono tornato nel suo studio e ho trovato un Ai Weiwei cambiato, provato e ancora più combattivo, ma in modo più strategico, più conscio e più preparato ai rischi cui stava andando incontro. Solito appuntamento alle 8 del mattino, soliti gatti a bighellonare, solita uscita a controllare se ci fosse o meno la presenza di agenti in borghese. Ne uscii con la vaga impressione che Ai Weiwei fosse ormai sulla strada diretta a diventare un martire della Nuova Cina. Un ingenuo e inutile sacrificio, purtroppo. A conoscenza dei rischi che stava prendendosi da tempo, quando lo incontrai per la seconda volta era appena stato rimesso in libertà dopo alcuni giorni trascorsi ai domiciliari.

Ai Weiwei era già su quel sentiero, opposto a quello intrapreso dalla dirigenza cinese, che conduceva dritto alla possibilità di essere arrestato. Non poteva e non ha potuto nulla neppure la sua esposizione alla Tate Modern, né il nome del padre, Ai Qing, noto poeta cinese, uno che si studia alle elementari da queste parti, già a conoscenza del sentimento dell’indesiderato essendo stato sottoposto alla rieducazione nelle campagne, a pulire i cessi pubblici durante la rivoluzione culturale.

Ai Weiwei è stato arrestato il 3 aprile scorso, scomparso senza alcuna notizia ufficiale prima di un imbarco aereo per Hong Kong e sarà probabilmente accusato di qualche crimine economico, una scusa come un’altra per farlo stare zitto, per dimostrare che neanche una star internazionale in Cina gode di alcuna protezione se non sta alle regole. Del resto è successo tutto insieme e improvvisamente e sarebbe il caso che anche l’Occidente potesse compiere una riflessione al riguardo, perché lo si voglia notare o meno, Ai Weiwei rappresenta l’ultimo di centinaia di arresti cominciati dopo un giorno preciso e facilmente ricordabile: il 10 dicembre 2010, il giorno in cui è stato consegnato il premio Nobel alla sedia vuota, causa assenza per condanna a 10 anni di carcere di Liu Xiaobo, dissidente cinese e vincitore del premio.

Da quel momento, con il sangue agli occhi delle autorità cinesi, è partita la chiusura di ogni spazio di denuncia, dal più piccolo al più grande. Il Fake Studio di Ai Weiwei, un posto simile alla Factory di Wharol per l’impatto sociale sul mondo artistico cinese e non solo, è l’ultimo tassello di una tela che appare ormai quasi completa.

“Non c’è distinzione tra la mia attività su internet e la mia arte”

Oggi il suo nome è cancellato da ogni pagina, irraggiungibile sul web cinese. Proprio dove le ultime performance lo avevano resto noto come attivista, specializzato nell’uso dei social network. Con il suo nome si tenta di cancellare anche la sua storia, ricordandolo solo come un ricco artista che si è messo nei guai con la giustizia cinese (come ha scritto il governativo Global Times). Quella di Ai Weiwei è la parabola di una persona famosa che appartiene a una minoranza di meno noti, ingranaggio loro malincuore della Cina moderna.

A vent’anni Ai Weiwei partecipa al movimento noto come Muro della Democrazia. Quando Deng Xiao Ping nel 1979 pone la parola fine ad ogni discussione sul tema, incarcerando il leader del movimento con l’accusa di diffusione di segreti nazionali, Ai Weiwei si trasferisce negli Stati Uniti, dove frequenta la Parsons School of Design, a New York. La permanenza negli States diventa un punto di snodo fondamentale sia artistico sia umano.

Vive in uno scantinato putrido, si mantiene con mille lavoretti, nonché con l’attività di ritrattista e la passione per il blackjack, ma entra in contatto con le novità del periodo, diventando un passaggio cruciale per ogni artista cinese che andrà negli Stati Uniti. Conosce e frequenta Allen Ginsberg e legge il suo primo libro in inglese, “La filosofia di Andy Wharol”: era facile, dirà nel 2010 al New Yorker, era un libro scritto con lo stile di Twitter. Comincia a farsi notare come fotografo, mentre alcuni suoi lavori sugli oggetti, una volta abbandonata la pittura, gli valgono i primi soldi e la notorietà.

Nel 1993 alla notizia della malattia del padre, torna in Cina. La scena artistica cinese è ai minimi termini: a scuoterla Ai Weiwei ed altri che decidono di stampare in proprio un libro di immagini e saggi, una cosa fuori dal mondo nella Cina di quei tempi. Trovano una stamperia amica e pubblicano il Black Cover Book, cui seguiranno il White e il Gray, per una trilogia che farà scuola. Uli Sigg, esperto di arte cinese e ambasciatore svizzero a Pechino, nota questo giovane ambizioso e lo introduce nei circoli che contano a cominciare da Harald Szeemann, curatore della Biennale a Venezia nel 1999. Nel 2000 un altro botto: Ai e Feng Boyi allestiscono alla Biennale di Shanghai una mostra provocatoria, in inglese titolata Fuck Off, in cui è presente anche l’immagine di un cinese che mangia quello che sembra essere il corpo di una bambina morta.

Arrivano anche i soldi e Ai Weiwei si trasferisce dalla casa dei genitori al suo studio. Prende un terreno a Caochangdi, periferia di Pechino e costruisce una struttura che attira l’attenzione di molti esperti. Ai Weiwei si sperimenta nell’architettura, salvo poi abbandonarla e tornare all’arte. Nel 2005 la prima svolta tech. Sina.com, popolare portale cinese, gli offre uno spazio per un blog. Ai Weiwei ha un computer che non usa mai, non capisce bene cosa sia un blog, lì per lì vorrebbe rinunciare, poi invece comincia e lentamente scopre un nuovo mondo, un nuovo modo di esprimersi, una nuova forma di arte, fino alla chiusura del blog. Nel frattempo però tutto è cambiato.

Nel 2008, dopo aver partecipato al disegno del Nido d’Uccello, lo stadio Olimpico di Pechino, annuncia il suo boicottaggio alle Olimpiadi. Poco prima un terremoto scuote la regione cinese del Sichuan. Mentre i dirigenti cinesi, come moderni leader, piombano sul posto e organizzano gli aiuti in diretta televisiva, Ai Weiwei comincia a seguire un altro percorso: quello che lo porterà, tra il silenzio del governo e dei media, a fare luce sul numero dei bambini morti nel crollo degli edifici scolastici. Sono rare ma piantate nella memoria, le immagine delle madri riprese a urlare che le scuole dei loro figli erano di tofu.

C’è una compiacenza governativa nel mettere sotto silenzio la responsabilità dei quadri responsabili di tante morti (oltre 5mila i bambini): certi conti in Cina, si fanno ancora nelle stanze segrete di Zhongnanhai, la residenza dei leader. Ai Weiwei invece supporta il lavoro dei blogger locali, rende tutto pubblico e va anche al processo contro Tan Zuoren, attivista del Sichuan arrestato. Lì viene picchiato dalla polizia. Alcuni giorni dopo, in Germania, verrà operato d’urgenza al cranio per postumi delle botte prese dai poliziotti cinesi. Stampa ancora un volta clandestinamente un cd con materiale sul terremoto e le morti, nella cover c’è Ai Weiwei che scatta una foto a se stesso tra due poliziotti in un ascensore. Devono portare i cd a Pechino su camion pieni di verdure.

Ai Weiwei non si ferma, via twitter organizza cene che raccolgono avvocati, designer, middle class cinese, un mix pericoloso agli occhi del governo. Infatti le cene sono sempre sorvegliate. Nel maggio del 2010, un piccolo capolavoro: insieme ad altri artisti sfrattati da un quartiere di Pechino, percorre addirittura pochi metri di Chang’an Avenue, proprio a ridosso di Tienanmen, simbolo di fin troppe cose, per essere tenute insieme. Bloccati subito, ma l’azione è un successo mediatico, all’interno del mondo internet cinese che sfugge alle censure locali.

Storia recente

Ai Weiwei è l’ultimo di tante persone, blogger, intellettuali, avvocati, attivisti, arrestati negli ultimi due mesi in Cina.

Dopo il caso Liu Xiaobo, descritto dalla stampa cinese come un criminale desideroso solo di fare soldi con aiuti occidentali, la stretta politica cinese si è fatta ancora più forte. Le paventate rivoluzioni del gelsomino, sulla falsariga delle rivolte del mediterraneo, hanno aumentato ancora di più l’ansia di controllo, ratificata anche nel recente incontro dell’Assemblea Nazionale Popolare. Accenni ad un maggiore controllo della vita sociale del paese, nel momento in cui l’economia viaggia a velocità meno sostenuta e l’inflazione, terribile pericolo per la società cinese, non esita a fermarsi.

La Cina ha bisogno di controllare il proprio popolo, specie in funzione dei tanti incidenti di massa, proteste, assalti ai posti di polizia, che senza alcuna copertura mediatica avvengono a migliaia all’anno nel paese. Del resto la stretta poliziesca, preventiva in quasi tutti i casi, trova radici in una società civile ancora in via di sviluppo annientata tra difficoltà oggettive e numeri infimi. Dopo l’arresto di Ai Weiwei gli unici artisti cinesi che si sono mossi, come ad esempio i Gao Brothers, sono quelli residenti all’estero. Si sono mossi loro, attraverso una lettera aperta al Guardian, il Guggheneim, la Tate Modern e poco altro.

In Cina, non vola una mosca, a conferma di come la potenza del Partito sui gangli vitali sia ferrea e funzionale. Con i media mondiali, inoltre, presi a seguire le vicende libiche e giapponesi, la Cina ha avuto gioco facile anche da un punto di vista mediatico internazionale nell’andare avanti nella propria strategia, senza alcun problema. Se mai ce ne fossero stati, alcuni articoli dei media ufficiali hanno ancora una volta confermato la forte diffidenza cinese nei confronti delle critiche esterne, suggellando nel contemporaneo nazionalismo anche la repressione attuale.

Che si tratti di azioni preventive per bloccare voci critiche che potrebbero complicare una situazione economica particolare o di un cambio di linea ai vertici politici, la giustificazione degli ultimi arresti è ancora difficile da trovare. Probabilmente le reali ragioni di questo attacco frontale agli intellettuali cinesi le conoscono solo i nove membri del Politburo. Alla maggioranza dei cinesi, questa la verità, sembra andare bene così. Agli occidentali, forse, idealmente la situazione non piace, ma il giogo economico cui la Cina è riuscita a fare sottostare il mondo occidentale, come al solito, sembra giustificare ogni atto di Pechino. La Cina ha bisogno di tempo si dirà. I suoi attivisti, di tempo, ormai ne hanno sempre meno.

[Pubblicato su Alfabeta2]