A che punto è il mercato cinese delle emissioni

In by Simone

Sulla carta esiste da almeno tre anni, ma fino ad ora non ha prodotto nulla di concreto. Programmi di sperimentazione a livello locale sono stati più volte ai nastri di partenza, senza tuttavia muoversi di un centimetro verso il traguardo. In alcuni casi si è arrivati addirittura a sottoscrivere accordi economici per il suo avvio, salvo poi lasciarli cadere nel nulla. Il progetto per l’istituzione di un mercato cinese delle emissioni somiglia sempre più a una chimera: tutti ne parlano ma nessuno l’ha ancora mai visto. L’attenzione della comunità internazionale su un emission trading system made in China si è riaccesa nei giorni scorsi in occasione dell’Eco-forum global 2011 tenutosi a Guiyang, capitale della provincia del Guizhou. A margine dell’incontro Xie Zhenhua, vice ministro della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (il più importante organo di programmazione economica), ha dichiarato che il Paese della Grande Muraglia è ormai prossimo a lanciare un progetto pilota per la compravendita di quote di emissioni, parte integrante del più vasto programma per la riduzione dell’inquinamento e l’incremento dell’efficienza energetica contenuto nell’ultimo piano quinquennale varato dal governo.

Pur senza fornire date precise, Xie ha lasciato intendere che il meccanismo potrebbe entrare in funzione in alcune città già a partire dal 2013, per essere poi applicato su scala nazionale nel 2015. Il sistema si accompagnerà all’entrata in vigore di una legislazione studiata per favorire il risparmio energetico e la tutela ambientale attraverso misure concrete, come l’etichettatura dei prodotti ad elevato contenuto di CO2 e l’inasprimento delle tariffe elettriche per le aziende che consumano troppa energia. Quella delle emissioni inquinanti è una spina nel fianco che ormai da anni leva il sonno al Dragone cinese.

Lo sviluppo del colosso asiatico è minacciato in misura crescente da un tasso di inquinamento che, per stessa ammissione dei vertici del Partito comunista, non ha eguali nel pianeta. Città avvolte da impenetrabili cappe di smog, fiumi, laghi e coste ridotti a discariche a cielo aperto, terreni avvelenati da scarichi industriali, uno sviluppo ipertrofico dei centri abitati e una popolazione in continua crescita. Problemi che devono essere affrontati in fretta e che rischiano di deviare lungo una linea morta la corsa della locomotiva cinese, portandola a schiantarsi contro la stessa montagna di carbone che l’ha alimentata fino a questo momento (Il 70 per cento dell’energia utilizzata dalla Cina è ricavato appunto da questo combustibile fossile).

Ai problemi interni, si aggiungono le crescenti pressioni internazionali che chiedono che il Paese più inquinante del mondo (un record ottenuto nel 2006 e da allora costantemente “migliorato”) si doti al più presto di qualche strumento per ridurre in maniera significativa le sue emissioni di anidride carbonica. Oggi nel Vecchio Continente i diritti di emissioni vengono scambiati in base all’Eu-Ets (Lo European union emission trading scheme, che recepisce gli accordi di Kyoto), mentre a Chicago vengono negoziati crediti basati su riduzioni volontarie e non regolamentate delle emissioni. Tre anni fa in Canada è partito il Montreal climate exchange, joint venture tra il Chicago climate exchange e la Borsa di Montreal, e in India sono da tempo iniziate esperienze sul Multi commodity exchange.

Ora gli occhi dell’intero pianeta sono puntati con ansia sulla Cina, che fino ad ora ha rifiutato categoricamente qualsiasi impegno vincolante per la riduzione delle emissioni, limitandosi a stabilire autonomamente l’obiettivo di diminuire la propria intensità carbonica (ossia l’ammontare di emissioni a effetto serra per unità di Prodotto interno lordo) del 40-45 per cento entro il 2020 rispetto ai livelli del 2005. Una misura che gli esperti giudicano poco più di un palliativo. Di fronte all’ennesimo annuncio di un progetto per un emission trading scheme cinese, è inevitabile chiedersi se questa volta sarà quella in cui alle dichiarazioni seguiranno azioni concrete. Le risposte date dagli esperti non sono univoche. Da una parte ci sono coloro che sostengono che, anche a fronte di una reale volontà del governo di dar vita a un meccanismo per la compravendita di emissioni, la Cina è ancora impreparata, sia a livello legislativo che a livello infrastrutturale, e che allo stato attuale pensare di controllare la quantità di CO2 prodotta sul suo immenso territorio sia un’impresa irrealizzabile. Sul versante opposto c’è invece chi sostiene che il sistema di compravendita delle emissioni sia ormai in dirittura d’arrivo.

Ne è convinto ad esempio Yang Zhi, che dirige il Climate change and low-carbon economy research institute della China’s Renmin University, e che ha più volte sottolineato come l’emission trading sia una strada obbligata, l’unica in grado di salvare il Dragone dalla coltre di veleno che le sue industrie hanno prodotto e che rischia soffocarlo nel giro di pochi anni. E se quello di Yang è un parere interessato, lo stesso non si può dire delle idee del professor Chen Hongbo, della Chinese academy of social sciences, think tank governativo con sede a Beijing. Chen ha passato gli ultimi tre anni a girare la Cina in lungo e in largo tentando di dimostrare alle autorità locali e centrali che i motivi per dar vita a un sistema per il controllo delle emissioni inquinanti non vadano ricercati tanto nella necessità di tutela ambientale, quanto nel portafogli.

L’opinione del professore è che un meccanismo di compravendita della CO2 sia lo strumento in assoluto meno costoso per spingere le industrie a migliorare la propria efficienza energetica, con ripercussioni positive per l’intero sistema economico. Quelli fino ad ora impiegati (come la chiusura delle aziende più inefficienti o le multe comminate a quelle più inquinanti), hanno avuto secondo l’esperto costi sociali ed economici troppo elevati: licenziamenti, fiumi di denaro sprecati e pochi risultati tangibili. Molto meglio dunque puntare sull’anidride carbonica, il vero asso nella manica del Paese della Grande Muraglia per svettare nella competizione globale.