Cina. Riforma culturale e soft power

In by Simone

La Cina ha lanciato una nuova riforma per regolare la produzione intellettuale e mediatica del paese. Pechino vuole infatti costruire una buona base culturale che renda l’ascesa cinese più accettabile all’estero. E che continui a promuovere la stabilità del Partito entro i confini nazionali. I cinesi li temiamo perché ci appaiano una comunità misteriosa e impenetrabile, dedita a loschi e fumosi affari”.

Lo scrittore italiano Tommaso Pincio usò questa espressione per spiegare  come concepì Cinacittà (Einaudi, 2008), un romanzo nella quale Roma è in mano ai cinesi, anzi all’incubo apparente di ogni civiltà che sta per scomparire: ovvero risultare assediata dagli elementi che consideriamo peggiori di un’altra civiltà, di cui si conosce poco e di cui si acquisiscono informazioni, che nel gioco della comunicazione sbiadiscono il proprio significato originario in mere leggende metropolitane.

O ancora: un cinese che schiaccia un accendino donatogli gentilmente da un soldato americano. Anche Philip K. Dick aveva utilizzato il pericolo cinese: in un altro periodo – Paradiso Maoista (Fanucci, 2007) è del 1954, Cinacittà è del 2008 – a confermare come l’ansia gialla non sia mai stata una paura troppo inconscia.

E oggi? Con la Cina seconda potenza mondiale, ma nettamente più in forma rispetto agli Usa e la critica situazione economica in cui versano, arriveremo a un capovolgimento dei nostri immaginari, tale da mangiare spaghetti di soia a colazione, girare con magliette a strisce bianco blu, occhiali senza lenti, sputacchieremo qua e là, urleremo il più delle volte anche in normali conversazioni e tanti altri luoghi comuni che la Cina, non si può negare, offre comunque nella sua variegata esposizione di contraddizioni?

La domanda è lecita, dato che abbiamo imparato ad apprezzare chewing gum e vestirci con i jeans, chissà che i qipao, gli abiti mandarini, e magari le caramelle di carne di maiale, o di pesce secco, non possano diventare elementi comuni della nostra vita quotidiana.

Ma questo ammasso di suggestioni, insieme ai kolossal di Hollywood e il sogno americano – di cui anni dopo si può dire di essersi innamorati, senza stare troppo a sottilizzare su altri elementi, come ad esempio un piano denominato Marshall – rimangono pur sempre una proiezione dell’immaginario occidentale per quel che riguarda un eventuale mito cinese capace di strapparci al nostro attuale ambiente culturale.

Quello americano era certamente soft power, nato, introiettato e diffuso – e acquisito – nel Novecento. Un’epoca in cui a tratti l’immaginario cinese non è che per altro non abbia funzionato, anzi.

Basti pensare a chi ha studiato cinese perché c’era il Sol dell’avvenire o ai tanti gruppi maoisti sorti negli anni Settanta o a quante espressioni sono entrate nel nostro gergo storico. Colpirne uno per educarne cento, dice niente? Ribellarsi è giusto? O ancora: la rivoluzione (o qualsiasi cosa si debba tingere di tragico ed epico) non è un pranzo di gala.

Oggi però il soft power – per come lo intendono i cinesi – si muove forse in modo diverso: la Cina è un animale dalle molteplici forme, capace – storicamente – di mimetizzarsi, di fare sue anche tradizioni non sempre affini al proprio codice confuciano (comunismo, ad esempio, capitalismo, un altro esempio) e straordinariamente rapace nel mutare le proprie sembianze, mantenendo la propria anima cinese.

La Cina è la Cina perché in grado di pronosticare futuri che si contano ancora in piani quinquennali, ma anche in grado di svoltare al volo, nel momento in cui si fiuti un’aria sbagliata nel vento precedente. E così si è arrivati nell’ottobre scorso alla necessaria sistemazione di tutto quanto fatto in questi ultimi trent’anni a livello economico.

Una prima spinta è stata data all’industria cinematografica, memori dell’Hollywood americano: la Cina nel 2010 ha prodotto oltre 520 film, contro meno di 100 all’anno prima del 2003. I film proiettati in Cina nel 2011 hanno rastrellato 10 miliardi di yuan (1,57 miliardi di dollari) al box office, 10 volte di più rispetto alle vendite al botteghino di dieci anni prima.

Una spinta confermata anche dalle autorità che hanno chiesto all’industria cinematografica di aumentare i giri, specie in vista di uno sbarco sugli schermi occidentali, anche se con le consuete caratteristiche cinesi.

I film infatti – secondo quanto riportato da una nota ufficiale del governo cinese – non devono danneggiare l’onore o l’interesse nazionale, incitare all’odio etnico, sviluppare "culti malvagi o superstizione, diffondere oscenità, gioco d’azzardo, droga, violenza o terrore”.

Una scelta che secondo molti rischia di imbavagliare la creatività, mentre secondo il professor Zhou Xing, della Beijing Normal University, Pechino starebbe invece dimostrando “la sua determinazione a promuovere l’industria cinematografica come un pilastro per lo sviluppo dell’industria culturale, rilevando l’intenzione dei policymakers di usare valori sociali nei film”.

Hu Shuli, reporter indipendente, liberale, sul South China Morning Post  ha scritto che "la riforma culturale è stato il tema principale della sesta sessione plenaria del XVII Comitato centrale del Partito comunista, dove si è deciso per l’approfondimento delle riforme del sistema culturale al fine di promuovere lo sviluppo e la prosperità della cultura socialista.

Questa frase ci dà un’idea generale di ciò che la cosiddetta riforma culturale comporterà. È la prima volta che la riforma culturale viene posta sullo stesso piano delle riforme economiche, politiche e sociali.

Questo contribuisce a chiarire il ruolo della cultura nelle politiche cinesi. Ci si aspetta che nei prossimi anni la riforma culturale acceleri e inneschi un’ondata di nuovi cambiamenti".

La Cina è rinata, riformata, riverniciata con un rosso più acceso ancora di quello maoista, che ha confermato la centralità del Partito e l’importanza del far girare denaro, e crearne, per aumentare il livello di vita della società cinese.

Trasportare, come su un transatlantico grande come un continente, oltre 300 milioni di persone al di fuori della soglia di povertà, era il primo obiettivo.

Poi è arrivato il potere internazionale, la possibilità di sedersi al tavolo dei grandi dettando, nel momento opportuno, la propria agenda.

Infine, dopo i capitali, doveva prima o poi arrivare lo sforzo dell’impianto culturale in grado di generare l’immaginario: ovvero l’accettazione che sotto la coltre di potenza economica c’è un cuore pulsante di cultura e magma immaginifico capace di giustificare un potere che altrimenti rimane troppo materiale. Proprio come un parvenu che sedutosi al tavolo con l’intellettuale rimane senza parole.

Centralismo democratico, anche: nell’ottobre scorso il Comitato centrale del Partito comunista cinese ha diramato le linee guida di una riforma culturale che deve provvedere, principalmente, a due scopi: da un lato controllare la cultura “interna” al paese, ovvero indirizzando nelle direzioni volute l’attenzione, senza che vengano creati patemi a un partito che quest’anno affronta il suo ricambio politico e che per quanto sia annunciato e rituale rappresenta pur sempre un momento di grande delicatezza.

Sul fronte interno le dinamiche sono sempre le solite e conosciute, dato che il Partito sa bene come muoversi e cosa fare: gioca in casa, conosce a menadito le mosse da compiere e seguendo il noto esempio del go, il gioco di strategia di origine cinese, tutte le pedine sembrano essere in mano allo stesso giocatore che a tratti sembra giocare contro se stesso.

Un esempio: la televisione. Via le fiction e i programmi frivoli, fuori dai palinsesti la maggior parte delle fiction straniere, spinta su contenuti tradizionali e tipicamente cinesi.

Ben più interessante appare il fronte esterno, ovvero la necessità di ampliare la capacità della Cina di narrarsi, di spiegarsi, di raccontarsi al mondo esterno, partendo dalla consapevolezza di non aver fatto, a oggi, un grande lavoro di public relations mondiale.

Lo ha detto il Comitato centrale e da lì, in giù, tutto procede tanto che si è definita la decisione come la Riforma culturale della Nuova Cina. Prima hanno provato a comprarsi Newsweek, ma presto hanno capito che i soldi non significano necessariamente cultura: era necessaria un’altra strategia.

All’esterno, infatti, le pedine del go immaginario spesso danno l’impressione di poter creare un accerchiamento (che poi è lo scopo del gioco) che provoca un certo isterismo nelle menti dei leader politici cinesi. Ed ecco però che la mossa, quella successiva, è sempre la chiave.

Mai stare fermi, anche il più piccolo e impercettibile movimento della pedina lontana dal centro del gioco diventa un elemento scardinante, perché costringe tutto il resto a cambiare. E si procede a tentativi.

Una prima mossa si è rivolta all’immagine del paese nelle sue relazioni con il mondo occidentale: basta con stereotipi e allusioni che descrivono la Cina come un paese misterioso, quando non proprio pericoloso per il benessere del mondo occidentale.

Ora secondo i cinesi è giunto il momento di intervenire direttamente nei dibattiti stranieri: con voci proprie – anche di politici di primo piano – in grado di cambiare la percezione degli stranieri nei confronti del colosso asiatico.

Non è un caso, infatti, che i funzionari cinesi sono ora più disponibili a pubblicare articoli su riviste o quotidiani stranieri.

Gli analisti ritengono che questa manovra mostri un entusiasmo da parte di Pechino per rendere le sue politiche comprensibili in altre parti del mondo. 

"Il governo cinese ormai vuole mandare i suoi messaggi in modo diretto", ha detto James McGregor, un consulente della società di pubbliche relazioni Apco Worldwide, aggiungendo che i sospetti nei confronti della Cina da parte dei media occidentali sono il risultato dell’ascesa del paese, che ha finito per spingere i funzionari a essere più reattivi.

Uno degli ultimi esempi è arrivato dal consigliere di Stato Dai Bingguo, che ha scritto sul The Daily Telegraph un articolo circa la crescita pacifica della Cina.

Dai Bingguo ha spiegato in modo molto netto che "i cinesi hanno sofferto l’aggressione straniera e non sono intenzionati a infliggere tali sofferenze ad altri popoli".

Il 23 giugno scorso, anche il premier Wen Jiabao ha scritto un articolo sul Financial Times durante la sua visita in Ungheria, Regno unito e Germania spiegando di essere sicuro circa le possibilità cinesi di contenere l’inflazione interna.

Lai Hongyi, professore di storia contemporanea cinese presso l’Università di Nottingham, ha confermato come la Cina sia ormai concentrata verso "una campagna internazionale di pubbliche relazioni", attraverso la richiesta ai suoi funzionari all’estero di essere più interattivi con i media internazionali.

Inoltre ci sono investimenti e soldi per la cultura: intanto gli Istituti Confucio , vera e propria pietra angolare del soft power cinese all’estero. I primi Istituti Confucio aprirono nel 2005 (in Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia) diventando 315 in 94 paesi solo 5 anni dopo. Si tratta di oltre 5 mila insegnanti stipendiati in ogni angolo del mondo, con l’obiettivo di arrivare ad aprire mille Istituti Confucio entro il 2015.

Non solo, perché oltre alla lingua la Cina è ormai pronta a esportare anche gli altri prodotti culturali, come ad esempio il cinema, la televisione (da qualche mese in Italia su un canale Sky è in onda la prima fiction cinese in italiano)  e le tecnologie.

Nel 2010 la cultura ha fruttato 1,1 miliardi di yuan, ovvero 173 miliardi di dollari (il 2,8 per cento del Pil nazionale): entro il 2016 dovrà fruttare il doppio. E dovrà sapere convincere anche il mondo occidentale.

[Scritto per East; Foto Credits: made-to-travel.com]