10mila firme contro i campi di rieducazione

In by Gabriele Battaglia

L’anno scorso si sono inginocchiati davanti alla bandiera di Tian’anmen per 30 secondi per chiedere giustizia contro la demolizione forzata delle loro case e attività. Ora la corte di Changsha li ha condannati ai lavori forzati per aver causato "disordine e disturbo". Si riapre il dibattito sui campi di rieducazione.

Un anno fa, 25 petizionisti si inginocchiarono davanti alla bandiera cinese a Pechino, in piazza Tian’anmen e avevano gridato slogan per protestare contro la demolizione forzata delle loro proprietà.

Le autorità di Changsha hanno condannato quattro persone a 18 mesi di lavori forzati, 17 persone a 12 mesi e quattro persone a pene detentive che vanno da due anni e mezzo ai tre anni. Da allora, molti di loro hanno continuato a fare appello perché le sentenze venissero riviste.

Zhou Jianyue, 53 anni, è uno di loro. Dieci anni fa, nel 2001, le autorità avevano demolito il suo ristorante, la sua unica fonte di reddito. Il signor Zhou denunciava la demolizione forzata della sua attività e la compensanzione assolutamente “ingiusta”.

"Mi sono inginocchiato davanti la bandiera nazionale per attirare l’attenzione dei funzionari di alto livello", ha dichiarato a Caixin. "Mi sono inginocchiato per soli 30 secondi, ma sono stato condannato a un anno di lavori forzati in un campo di rieducazione." Il 6 settembre, il tribunale popolare di Changsha ha riaperto il caso ma non è stata rilasciata nessun’altra informazione.

Ren Jiahui, avvocato di Pechino e rappresentante legale della moglie di Zhou, ha detto che i petizionisti si erano inginocchiati davanti la bandiera nazionale per far valere i loro “diritti”. Ma le autorità di Changsha  la vedono diversamente. Secondo la sentenza del tribunale, i manifestanti sono stati condannati ai lavori forzati perché "hanno causato disordine e disturbo in piazza Tian’anmen, il che ha un pessimo impatto sulla società".

L’avvocato Zhang Hua rappresenta quattro dei petizionisti coinvolti nella protesta. Ha dichiarato al magazine di Hu Shuli che il giudice avrebbe chiesto ai suoi clienti di ritirare il loro appello in cambio di una sentenza più mite e che due ricorsi sono già stati respinti.

Molti studiosi di diritto cinese criticano da tempo la legittimità della cosiddetta "rieducazione attraverso il lavoro" del sistema penale. Oggi il quotidiano in lingua inglese Global Times – che in genere ha posizioni provocatorie che “anticipano” e amplificano i discorsi ufficiali del partito – torna sull’argomento.

Racconta che un avvocato di Hangzhou, Wang Cheng, sta cercando di raccogliere 10mila firme per sradicare il sistema di rieducazione attraverso il lavoro presentando una petizione al governo. Domenica aveva già raggiunto quota 7100 firme di cittadini diversi come esperti legali, avvocati, imprenditori e lavoratori migranti.

Il sistema dei campi di lavoro (prima laogai, poi laojiao) è stato introdotto nel lontano 1957 a seguito di una circolare del Consiglio di Stato. All’epoca ci si mandavano i cosiddetti “controrivoluzionari”, così come i colpevoli di reati minori come furto, frode o vandalismo. Con gli anni i campi sono stati riempiti anche di prostitute, persone dipendenti da droghe e petizionisti.

Hu Xingdou, un professore del Beijing Institute of Technology ha riferito al Global Times che ci sono interessi nascosti che impediscono una riforma del sistema penitenziario, ovvero chi pensa che il sistema dei campi di lavoro funziona per il mantenimento della stabilità sociale e produce profitti attraverso il lavoro dei detenuti.

Una recente inchiesta di Al Jazeera, ripresa in Italia dal programma di Fazio e Saviano, aveva messo in luce come i beni prodotti nei campi di rieducazione venivano poi illegalmente venduti a Stati Uniti ed Europa. 

Secondo il Global Times, attualmente sono 60mila i detenuti nei campi di lavoro su territorio cinese, senza contare i 20mila tossicodipendenti.

[Scritto per Lettera43; foto credits www.news.cn]