Si ritiene che Zhang Yadi sia trattenuta in un centro di detenzione nella sua città natale, Changsha, con l’accusa di “incitamento al separatismo”. Un reato fino a poco tempo fa attribuito perlopiù a tibetani e uiguri. Nel mirino Chinese Youth Stand For Tibet, “l’unica organizzazione a sostenere i tibetani nella comunità di lingua cinese”. La fondatrice Ginger Duan ci racconta le pressioni di Pechino.
“La storia dei gruppi etnici della Cina sud-occidentale è una storia sanguinosa di colonizzazione, lavaggio del cervello, schiavitù, matrimoni misti e assimilazione della popolazione indigena da parte del popolo Han”. Zhang Yadi, 22 anni, non ha mai nascosto la sua opposizione alle politiche del governo cinese nei confronti dei gruppi minoritari. Non ha mai avuto paura di parlare. Ora, suo malgrado, però è costretta al silenzio. Quel post su X del 25 luglio è infatti l’ultimo. La ventiduenne, secondo Human Rights Watch, è l’ultima vittima della “repressione transnazionale” condotta da Pechino nei confronti degli studenti cinesi residenti all’estero.
Zhang avrebbe dovuto iniziare a settembre un corso di laurea in antropologia presso la Soas University di Londra. Era tornata in Cina quest’estate per trovare dei parenti e visitare altre regioni tibetane. Ma il 30 luglio, mentre si trovava nella provincia dello Yunnan, è scomparsa nel nulla. Da allora, né la sua famiglia né i suoi amici hanno avuto più contatti diretti. Si ritiene che sia trattenuta in un centro di detenzione nella sua città natale, Changsha, con l’accusa di “incitamento al separatismo”. Un reato fino a poco tempo fa attribuito perlopiù a tibetani e uiguri che – secondo l’ong Duihua – nel periodo 1998-2016 ha riguardato appena 155 persone dell’etnia maggioritaria Han, circa il 14% del totale. Ma che, anche in assenza di dati precisi, dai casi isolati avvenuti negli ultimi nove anni sembra essere stato sempre più spesso associato a ricercatori e attivisti Han impegnati in campagne online o in gesti dimostrativi. Se riconosciuta colpevole, Zhang rischia fino a 15 anni di carcere.
Secondo alcuni amici della ragazza, il noto avvocato per i diritti umani, Jiang Tianyong, che si era recato a Changsha per fornire assistenza legale alla madre di Zhang, è stato portato via il 16 settembre da tre uomini non identificati fino a una stazione di polizia e in seguito rilasciato.
Cresciuta in una famiglia buddista, Zhang si è avvicinata alla corrente tibetana della religione durante le scuole superiori. Questo l’ha resa più consapevole della difficile situazione delle minoranze etniche in Cina. Ma solo dopo essere arrivata in Francia nel 2022, la ragazza ha iniziato a parlare apertamente delle violazioni dei diritti umani. Da lì ha cominciato a collaborare con Chinese Youth Stand For Tibet (CYST), piattaforma digitale, nata dopo le “proteste dei fogli bianchi” del 2022, che si prefigge di “condividere la verità nascosta sul Tibet tra la comunità di lingua cinese”.
Ad animarla è una nuova generazione di giovani cinesi impegnati nella mediazione pacifica dei conflitti etnici. “Profondamente appassionati della cultura tibetana”, su Substack forniscono “approfondimenti sulla ricca umanità del Tibet, l’ecologia unica, la storia complessa, le dinamiche politiche ed economiche e la situazione dei diritti umani”. Entrare nel gruppo ha permesso a Zhang di sentirsi finalmente apprezzata per quello che faceva e superare il turbamento e la solitudine degli anni trascorsi in Cina, racconta al Guardian il fidanzato.
Perché arrestare proprio lei? “Perché siamo probabilmente l’unica organizzazione di attivisti a sostenere i tibetani (o altre minoranze) nella comunità di lingua cinese”, spiega a Gariwo Ginger Duan, fondatrice di CYST. “La questione tibetana è molto delicata in Cina, quindi siamo cauti. Non permettiamo mai ai nostri membri di fare nulla lì, perché è troppo pericoloso e quando uno dei nostri torna in Cina, lo rimuoviamo temporaneamente dal gruppo, così è avvenuto con Yadi”, continua la ragazza che racconta di aver subito crescenti pressioni di recente. E non è l’unica. “Molti altri membri vivono nella paura anche se si trovano in paesi occidentali. Qualche giorno fa, uno dei miei amici tibetani è stato arrestato dal Ministero della Sicurezza dello Stato (MSS) cinese. Durante la detenzione, è stato costretto a chiamarmi e a minacciarmi di non continuare a parlare sui media occidentali a nome di Yadi. Da allora è stato rilasciato, ma rimane sotto sorveglianza dell’MSS”.
Malgrado il giro di vite, Duan scorge una nota positiva: con il Covid i giovani cinesi Han sono diventati più sensibili nei confronti delle altre etnie. Soprattutto dopo la morte di 10 persone nello Xinjiang rimaste intrappolate a causa dei rigidissimi lockdown imposti dalle autorità.
Resta difficile stabilire con certezza le cause dell’arresto di Zhang. Ma non è escluso che il recente annuncio del Dalai Lama in merito alla sua successione abbia richiamato con più urgenza l’attenzione delle autorità sulla questione tibetana. Gli ultimi sviluppi sul “Tetto del mondo” si sono susseguiti a stretto giro. La notizia del fermo di Zhang segue di poco più di un mese la visita di Xi Jinping in Tibet per i 60 anni della regione autonoma, celebrati il 20 agosto. Prima volta che la ricorrenza viene officiata dal presidente della Repubblica popolare. Durante l’evento, il leader ha affermato che “per governare il Tibet e renderlo stabile e prospero, la priorità deve essere il mantenimento dell’ordine politico, della stabilità sociale, dell’unità etnica e dell’armonia religiosa”.
“Armonia” e “prosperità” delle minoranze sono anche i due concetti al centro dell’agenda dell’Assemblea nazionale del popolo. Nelle ultime settimane il parlamento cinese ha divulgato una bozza di legge sulla promozione dell’unità etnica e del progresso. Composto da 62 articoli, la norma formalizza la creazione di “una coscienza comune della nazione cinese” in ambiti quali istruzione, religione, storia, cultura, turismo, mass media e internet. Ad esempio, l’articolo 14 impone alle autorità di “stabilire ed evidenziare… i simboli culturali cinesi” nelle strutture pubbliche, nell’architettura e nei siti turistici, e nella denominazione dei luoghi, rievocando le restrizioni nell’uso delle lingue minoritarie nonché la distruzione/sinizzazione degli edifici di culto avvenuta negli ultimi dieci anni.
Secondo gli esperti, le nuove direttive andranno a rimpiazzare la legge sull’Autonomia regionale del 1984, stando alla quale, tra le altre cose, le scuole sono – sulla carta – ancora tenute a “utilizzare libri di testo nelle lingue minoritarie, se possibile, e insegnare in queste lingue”.
Certo, i tempi sono cambiati: il mandarino è la lingua franca in ambito professionale. Ma la modernizzazione e lo sviluppo promossi da Pechino stanno diventando il paravento per l’omologazione aggressiva delle diversità etniche e culturali. Proprio quelle caratteristiche grazie alle quali la Cina fino a oggi ha cercato di presentarsi al mondo come un paese plurale e inclusivo.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su GariwoMag]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.
