La notte e il giorno successivi agli scontri di Urumqi, hanno presentato la consueta Pechino, galleggiante tra cielo bianco, caldo umido e una calma piatta assoluta. Tra gli hutong intorno a Niu Jie, la via in cui sorge la Moschea principale della capitale, il ritmo sembra essere il consueto, tra bancarelle del mercato, attività svariate e partite a majhong per strada. Non si notano posti di blocco o presenze militari particolari, se non le consuete: Pechino in alcune zone è sempre presidiata, specie in concomitanza con campagne lanciate dal governo, siano contro l’uso di alcool o droghe. Nelle viuzze della zona musulmana, sembra che molti degli uighuri che vivono lì abbiano deciso di trascorrere le giornate al fresco delle proprie case munite di aria condizionata, piuttosto che affrontare le strade afose e con esse sguardi e incontri sgraditi.
Nei supermercati che vendono carne e prodotti tipici, con scritte in arabo e architettura medio orientale, poca gente. Per chi non avesse visto il notiziario in televisione o non avesse accesso a internet, potrebbe essere una giornata come tante altre. D’altro canto Urumqi e le sue folli giornate distano più di 3000 chilometri, qualche fuso orario (se non fosse che in Xinjiang vige l’ora di Pechino, altra imposizione piuttosto bizzarra) e il consueto poco interesse dei cinesi per tutto quanto pare ammantarsi del termine politica. Quella, lo ripetono spesso, è cosa del governo. Naturale che nessuno parli e che i pochi uighuri siano inavvicinabili.
Danwei.org – uno dei siti internet più interessanti per seguire le vicende sociali, politiche e culturali cinesi – aveva dato notizia dell’oscuramento di molti quotidiani on line xinjianesi, a sottolineare l’impossibilità di ottenere informazioni che non andassero oltre la CCTV e le agenzie governative. Nello stesso momento veniva segnalata anche una difficoltà a trovare copie cartacee degli organi di informazione provenienti dal nord ovest cinese. Come risultato, anche danwei.org è stato oscurato. A Urumqi del resto, anche i giornalisti stranieri presenti, non hanno facilità a trovare informazioni: ammassati in un albergo nella centrale e ormai blindata Piazza del Popolo, soffrono il collegamento internet traballante, difficoltà di comunicazioni telefoniche, il coprifuoco.
Sul web invece, qualche discussione e report ha superato le maglie dei controlli e l’impressione di chi ha potuto accedere a informazioni che non fossero quelle ufficiali, è che il governo cinese sia stato sorpreso dalla violenza delle giornate di Urumqi e che più in generale la tensione e l’allerta restino altissime.
Mancano ancora molte informazioni. I numeri non bastano: degli oltre 150 morti non si conoscono ancora nomi e nazionalità, segno che qualcosa nelle versioni ufficiali stona. Anche nella giornata di ieri quindi la conoscenza di quanto accaduto lo si deve ad alcune persone che attraverso Twitter o le Bbs cinesi, sono riusciti a costruire una sorta di resoconto di quanto avveniva per le strade e sulla generale situazione della città. Il corteo delle donne uighure ad esempio, ma anche i tanti capannelli di cinesi han armati di bastoni e pronti a difendersi da eventuali attacchi di uighuri.
Non esiste infine ancora chiarezza circa la dinamica di quanto accaduto e le cause che hanno scatenato il finimondo, in un anno in cui si sono contati migliaia di mass incidents (80 mila secondo Evelyn Chan, del China Election), come i cinesi chiamano le insurrezioni che sfociano in scontri, in tante zone del paese. Dal Guandong ad esempio, dove ci fu lo scontro tra operai han e uighuri, in cui morirono due xinjianesi, e che ha portato alla manifestazione di domenica, le informazioni sono poche. Si sa solo che nel mese scorso, 800 lavoratori uighuri erano stati presi dalla fabbrica di giocattoli di cui è proprietario il tycoon di Hong Kong Francis Choi. Per il resto, eventuali implicazioni sociali ed economiche dell’attrito tra gli operai (sfociato, secondo le cronache, in seguito a una presunta violenza ai danni di una ragazza han): tutto a tacere.
Su Shanghaiist.com, un altro sito di informazione su quanto accade nel mondo dei blog e delle chat cinesi, qualcuno sottolineava il fatto che la manifestazione di domenica fosse composta da uighuri pacifici, alcuni dei quali con bandiere cinesi. Come se l’intento fosse quello di chiedere una parità di trattamento sociale, più che l’indipendenza. Gli uighuri infatti sono utilizzati per i lavori considerati più bassi nella scala sociale cinese e la loro nomea, presso gli han, è spesso negativa. «Pensano che siamo ladri o spacciatori», mi aveva spiegato un ragazzo di Urumqi che vive a Pechino. Giunto nella capitale, si era visto rifiutare la possibilità di affittare una casa da parte di un cinese: «mi ha detto di no, quando ha visto che ero dello Xinjiang».