Quasi un anno fa, a Wukan si tentava l’esperimento democratico. I cittadini eleggevano i propri rappresentanti dopo aver cacciato i vecchi funzionari imposti da Pechino. Volevano avere indietro le terre che erano state loro sottratte ed è stato concesso loro di votare. Che ne è oggi di quell’esperimento? Wukan, chi era costui? O meglio “cos’era”. Un villaggio nel sud della Cina che un anno e mezzo fa divenne il simbolo vivente di una possibile democrazia alla cinese.
Era l’epoca delle tre “W”: Wen Jiabao, il premier che spingeva per riforme sia politiche sia di mercato; Wenzhou, la città dove la Cina stava sperimentando un nuovo sistema finanziario più aperto, basato sul credito privato e non solo pubblico; e Wukan appunto, dove l’intera cittadinanza era insorta contro gli abusi dei funzionari locali, li aveva cacciati, e dopo aver resistito per dieci giorni all’assedio delle forze di pubblica sicurezza, era riuscita a imporre un proprio modello di democrazia dal basso, con libere elezioni dei nuovi rappresentanti.
Oggi che ne è di quell’esperimento? Il South China Morning Post è andato a vederlo.
A meno di un anno dalle elezioni del marzo 2012 si è creata una spaccatura netta tra i leader liberamente eletti e i loro stessi elettori.
La ragione pratica è molto semplice: i contadini, con l’avvento della democrazia, si aspettavano la restituzione dei terreni che erano stati venduti dai vecchi funzionari, nominati dall’alto, per avviare una grande speculazione edilizia. Questo però non è avvenuto perché – si giustificano i nuovi leader “democratici” del villaggio – quando si sono insediati, le vendite delle terre erano già state concluse. Si sono quindi trovati con le mani legate.
Difficile spiegarlo alla gente, per cui la democrazia è semplicemente lo strumento per riavere indietro ciò che era stato loro indebitamente tolto.
Lin Zuluan, il 69enne capovillaggio che ai tempi delle elezioni divenne una mezza celebrità rivela di essere stanco e rimpiange di essersi candidato: “La democrazia è qualcosa che tutti dovrebbero perseguire, ma la sua realizzazione deve essere graduale ed è necessario l’ambiente giusto che la renda possibile. Non possiamo inventarcela dall’oggi al domani”.
“Alcuni abitanti del villaggio hanno perfino detto che ogni violenza sarebbe stata giustificata per riavere indietro la terra”, racconta Yang Semao, vice capovillaggio. “Ci hanno suggerito di prendere a calci le persone che avevano acquistato i terreni e di demolire le strutture che avevano costruito in loco”. I contadini sono interessati solo alla terra e sosterrebbero chiunque promettesse loro di restituirgliela, indipendentemente dal fatto che sia stato eletto democraticamente, è l’amara conclusione: “non gli importa come i capi vengono nominati”, conclude, aggiungendo che in futuro potrebbero di nuovo calare dall’alto.
Un giovane attivista locale, Zhang Jianxing, ritiene che la democrazia “sia andata troppo in là”, e che “alcuni abitanti del villaggio credono di poter fare quello che vogliono”. È, questo, un modo di pensare profondamente cinese: da ogni progresso (per non parlare di rivoluzione) non può scaturire disordine, non può nascere conflitto perenne. Non è quindi possibile scardinare repentinamente un modello di governance, bisogna avere “misura”, evitare di spingersi “troppo in là”.
Il villaggio ha gli occhi addosso dei media ufficiali. Dragon TV (di Shanghai) e il Quotidiano del Popolo hanno enfatizzato le difficoltà del nuovo comitato locale e sottolineato che ai tempi della vittoriosa lotta dei contadini, il merito fu soprattutto delle capacità di mediazione messe in campo da Wang Yang, segretario del Partito nella regione del Guangdong, che “riuscì ad alleggerire la tensione concedendo le elezioni”. Una concessione strumentale, dunque, fatta da un leader di spessore nazionale che passa per riformista ma che è di fatto espressione del potere dall’alto esercitato dal Partito.
Zhang Lifang, un commentatore politico pechinese, ritiene che questa lettura “riflette sicuramente il pensiero di alcuni funzionari, secondo cui il villaggio non può essere adeguatamente governato con la democrazia”. Il libero esperimento di Wukan sarebbe dunque reversibile se non supera la prova dei fatti: se non si dimostra efficiente e soprattutto “armonioso”.
Questa democrazia andata “troppo in là” sembrerebbe scontare l’assenza di quell’elemento che rende ogni democrazia sostanziale: il sapere. A dirlo è Peng Peng, ricercatore presso l’Accademia delle Scienze Sociali di Guangzhou, secondo cui il modello in sé non può essere messo in questione, tuttavia a Wukan si sconta l’assenza di “politici di professione”. Un monito per tutta la Cina che può forse servire da specchio anche al dibattito italiano, tra processi alla “casta” e avvento di outsider “prestati alla politica”.
Il problema, anche in Cina, è: come evitare che si crei un’elite autoreferenziale e che al tempo stesso la democrazia non sia preda delle pulsioni più populiste interpretate dal capopopolo di turno?
Forse la risposta è il controllo dal basso, che però può essere esercitato solo in presenza di un altro tipo di sapere: quello diffuso. Secondo Zhang Lifang, a Wukan gli abitanti “non sono stati educati ai concetti di diritti civili e responsabilità, mentre ci vuole tempo per cogliere il vero senso della democrazia”. Forse, nel villaggio divenuto simbolo, si è andati davvero “troppo in là”.
[Scritto per Lettera43; foto credits: ]