Un voto di fiducia per il governo del Partito unico. Iniziativa che molti interpretano come contromossa del regime per tenere sotto controllo il malcontento popolare. Rimane comunque un segno, spiega a China Files Roberto Peruzzi, dell’"evoluzione" del Partito comunista vietnamita. Suona come un avvertimento l’esito del voto di fiducia a cui il Partito comunista del Vietnam (Pcv) ha sottoposto la propria leadership. È il primo nella storia del partito, al potere dal 1976, che ora si trova a fronteggiare accuse di scarsa trasparenza e di inettitudine sul fronte economico.
Nessun risultato nella lotta alla corruzione e stagnazione economica. Questi i principali capi d’imputazione che pendono sul governo guidato da Nguyen Tan Dung, da qualche anno ormai individuato come principale responsabile dei mali del Vietnam. Pesa in particolare il rallentamento della piccola “tigre” asiatica, che l’anno scorso ha registrato una crescita pari al 5,03 per cento, il dato più basso da 13 anni a questa parte.
E così i circa 500 delegati dell’Assemblea nazionale – il 90 per cento dei quali iscritti al Pcv – hanno sottoposto le più alte cariche dello Stato (in totale 46 tra ministri e alti funzionari, compresi il presidente della Repubblica Truong Tan Sang e il primo ministro Dung) a tre gradi di approvazione: “alta fiducia”, “fiducia”, “bassa fiducia”.
L’analisi del post-voto è duplice. Da un lato la leadership del Partito nel suo complesso ne esce promossa: tutti i suoi membri hanno infatti superato la soglia del 50 per cento di approvazione da parte dell’Assemblea. Certo, promossi con debiti da recuperare al più presto, se intende riagguantare l’obiettivo di crescita al 5,5 per cento fissato per il 2013.
C’è però anche un rovescio della medaglia. E riguarda in particolare alcuni membri dell’esecutivo che hanno ricevuto un alto numero di voti di “bassa fiducia”. Chi ne esce malconcio è il capo del governo, Dung, insieme ad altri membri eccellenti della nomenklatura.
Il primo ministro, dal 2011 al suo secondo mandato, ha ottenuto infatti 160 voti, oltre un terzo del totale, di “bassa fiducia”. Peggio di lui solo il ministro dell’Istruzione Pham Vu Luan e il governatore della Banca centrale, Nguyen Van Binh. Ad ottenere la più alta percentuale di consenso è stato il Presidente Truong, ex guerrigliero nordista eletto a luglio 2011 con il 97 per cento delle preferenze dell’Assemblea.
Il voto doveva dare un segnale alla popolazione vietnamita. Doveva mostrare, come ha scritto nei giorni scorsi il quotidiano di Hanoi Than Nien Daily, che il sistema politico del Paese, oggi dominato dal partito unico, sta “evolvendo in senso progressista”. Il sistema del voto di fiducia è stato infatti introdotto a novembre 2012 in risposta al crescente malcontento della popolazione nei confronti dell’operato del governo e in particolare del suo primo ministro.
“È disposto a dare il via a una ‘cultura delle dimissioni’ in modo da rompere pian piano con quella delle scuse?”, aveva chiesto provocatoriamente a Dung Duong Trung Quoc, uno dei pochissimi delegati non affiliati al Pcv, durante una seduta dell’Assemblea trasmessa in diretta televisiva il 14 novembre 2012.
Su Dung pesava allora come oggi la carente gestione dello scandalo Vinashin. Nel 2010, la più grande azienda di cantieristica navale vietnamita ha sfiorato la bancarotta, sommersa da un debito di oltre 4,5 miliardi di dollari accumulato in operazioni azzardate, piani d’investimento sbagliati e mancata sorveglianza dei funzionari di stato. Nel marzo 2012, l’ex amministratore delegato di Vinashin viene condannato a 20 anni di carcere per il crack e quasi un anno dopo, a febbraio 2013, il ministero delle Finanze decide finalmente di intervenire a garanzia dei debiti dell’azienda nei confronti delle banche.
Il caso, per cui Dung in persona aveva dovuto chiedere scusa di fronte all’Assemblea nazionale e al Partito, rifiutando comunque di dimettersi, aveva messo in luce tutta l’inefficienza e la fragilità del sistema delle aziende di Stato.
Seppur minima, il voto del 9 giugno scorso appare come un’apertura della nomenklatura comunista a richieste di maggiore trasparenza nella gestione della Cosa Pubblica che provengono dal basso.
E, soprattutto, mette in luce la sopravvivenza di una certa “originalità” vietnamita. “Il Partito ha accettato i limiti del proprio potere assoluto”, ha spiegato a China Files Roberto Peruzzi, docente di Relazioni internazionali dell’Asia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia ed esperto di storia del Vietnam. “E dato che è il Partito stesso a chiedere ed accettare questi limiti, si conferma la particolarità storica del Partito comunista vietnamita, che negli anni ha sempre mantenuto una sua originalità e autonomia e non è mai stato un qualcosa di totalitario come in Unione Sovietica o in Cina”.
Non mancano comunque voci più critiche, soprattutto sul fronte interno. "Non sarà un voto regolare", aveva spiegato alla vigilia del voto all’Agence France-presse l’ex deputato Nguyen Minh Thuyet. Thuyet è apparso scettico soprattutto all’ipotesi di dimissioni di qualche membro del governo in seguito al voto. "Tutti otterranno la fiducia", aveva spiegato aggiungendo che un eventuale bocciatura avrebbe previsto un processo lunghissimo, che lo stesso ex deputato aveva definito "insensato". “Un voto non obiettivo”, ha commentato il giorno dopo sempre all’Afp l’attivista ottantenne Le Duc Hien. “Tutto è stato già deciso in anticipo dal partito”.
Il voto sarebbe dunque servito, secondo i dissidenti, solamente a “convalidare il regime autoritario” instaurato dal Partito. Un regime che non allenta la presa sul dibattito politico e sull’informazione. Hanno fatto notizia negli ultimi tempi i numerosi arresti di blogger e giornalisti. L’ultimo il 27 maggio scorso: l’ex giornalista e blogger Trong Duy Nhat viene arrestato per “abuso delle libertà democratiche”. Dal suo blog, intitolato Mot Goc Nhin Khac, (Un diverso punto di vista) si occupava dell’attualità del suo paese senza risparmiare critiche al Partito.
Un Partito che a tutt’oggi è legittimato nel suo potere dall‘Articolo 4 della Costituzione in cui si legge che sono “il Partito comunista del Vietnam, le avanguardie della classe operaia e i leali rappresentanti della classe operaia, dei lavoratori e di tutta la nazione” ad assumersi “la leadership dello Stato e della società”.
Su una modifica costituzionale, a marzo di quest’anno oltre settanta studiosi provenienti dai più diversi campi, hanno presentato al governo, in occasione della seconda revisione del testo costituzionale del 1992, un appello noto come Petizione 72. Chiedevano una revisione proprio dell’Articolo 4, che protegge la leadership incontrastata del Pcv e l’avvio di un sistema di competizione tra partiti. La nomenklatura aveva però subito rigettato la proposta: “Chiunque cerchi il processo consultivo, cerca di sabotare il partito”.
Qundi, il voto di fiducia è sì apertura, ma “non significa che il Vietnam diventi una democrazia”, ha sottolineato Peruzzi. “Ma certo è una notevole prova di ‘coraggio’ istituzionale”, “E non solo rispetto alla Cina (dove il voto di fiducia sarebbe impensabile), ma anche rispetto a paesi come Singapore”.
[Foto credits: gulf-times.com]
*Marco Zappa nasce a Torino nel 1988. Fa il liceo sopra un mercato rionale, si laurea, attraversa la Pianura padana e approda a Venezia, con la scusa della specialistica. Qui scopre le polpette di Renato e che la risposta ad ogni quesito sta "de là". Va e viene dal Giappone, ritorna in Italia e si ri-laurea. Fa infine rotta verso Pechino dove viene accolto da China Files. In futuro, vorrebbe lanciarsi nel giornalismo grafico.