Sempre di più le autorità pubbliche nascondono le informazioni sull’inquinamento delle aree di competenza. Alla base ci sono sempre maggiori interessi economici. Intanto Li Keqiang il neo-eletto primo ministro prosegue sulla strada della chengzhenghua. Un’urbanizzazione a misura del nuovo ceto medio. Due notizie apparentemente slegate tra loro danno il senso della difficile transizione che sta vivendo la Cina, un cambiamento che si ripromette di essere ciclopico ma che incontra resistenze da parte dei potentati locali.
Due organizzazioni ambientaliste hanno reso noto ieri a Pechino che la maggior parte dei governi locali cinesi nasconde al pubblico da anni informazioni essenziali in materia di inquinamento. Sono l’istituto per gli Affari Pubblici e Ambientali di Pechino e il Natural Resources Defense Council Usa, secondo cui la trasparenza è diminuita gradualmente nel corso degli anni, rendendo sempre più difficili gli sforzi delle stesse autorità centrali verso una maggiore sensibilizzazione.
Alla radice del problema, ci sono ragioni economiche e interessi locali. I funzionari cittadini proteggono le fabbriche più inquinanti per timore che siano chiuse, il che determinerebbe un rallentamento della crescita economica locale, da cui dipende la loro carriera. Questo, in una fase di parziale rallentamento della crescita complessiva del Paese.
È, questa, l’eredità perversa del denghismo, la politica dell’”arricchirsi è glorioso” lanciata oltre trent’anni fa dall’allora leader Deng Xiaoping. Dopo lustri di crescita accelerata, quantitativa ma poco qualitativa, oggi il governo cinese cerca di trasformare il modello economico. Ma, come si vede, incontra resistenze nel ventre molle del Dragone stesso.
Secondo il South China Morning Post, le due organizzazioni ambientaliste monitorano dal 2009 le 113 maggiori città cinesi e pubblicano ogni anno un indice di trasparenza rispetto alle informazioni ambientali fornite dalle autorità.
Al pubblico italiano diranno forse poco, ma i nomi delle municipalità che occultano maggiormente i dati sono Zaozhuang nello Shandong, Datong e Yangquan nello Shanxi, Xiangyang nell’Hubei, Karamay nello Xinjiang, Changchun e Jilin nel Jilin, Zhangjiajie nell’Hunan, Jinzhou nel Liaoning e Ordos in Mongolia Interna.
Sono tutti centri che dipendono dalla produzione di carbone per il settore energetico, dal settore minerario o dall’industria pesante. Tra i dati che vengono maggiormente occultati, ci sono quelli sullo scarico di sostanze inquinanti e sulle sanzioni amministrative che dovrebbero essere inflitte agli inquinatori.
La seconda notizia riguarda il premier Li Keqiang, che parlando di agricoltura ha reso indirettamente più chiara l’idea di urbanizzazione (chengzhenghua) a cui si ispira, parola chiave per compiere la grande transizione cinese.
A Guli, una città della municipalità di Changshu, nel Jiangsu, Li ha visitato comunità di agricoltori che – recita China Daily – si sono trasformate in “comunità in un contesto urbano”, dopo che i loro membri hanno concesso i propri appezzamenti ad agricoltori specializzati.
Non è dato sapere di che vivano ora gli ex contadini inurbati, ma il premier ha espresso il suo compiacimento “sia per i nuovi residenti urbani sia per i nuovi agricoltori, aggiungendo che se faranno il giusto sforzo per costruire le loro comunità, [si renderanno conto che] nelle piccole cittadine la vita può essere più facile e conveniente che nelle grandi città”.
“La terra può produrre oro – ha detto ancora Li – ma agricoltori non devono essere incoraggiati a produrre più grano, bensì grano di qualità superiore”. Ma la produzione è impossibile in piccoli appezzamenti, “si può realizzare solo con la concentrazione della terra in aziende di grandi dimensioni”.
Song Hongyuan, un funzionario che lavora per il ministero dell’Agricoltura, ha aggiunto che il governo incoraggia il trasferimento e la concentrazione dei terreni agricoli solo a condizione che la terra continui a essere utilizzata per la produzione agricola.
È questa l’urbanizzazione sostenibile che ha in mente Li: il trasferimento della gran massa di contadini in piccole città a misura d’uomo – deviando il flusso che negli ultimi trent’anni li ha portati invece a intasare le megalopoli ipertrofiche – e la produzione agricola consegnata nelle mani di grandi industrie all’avanguardia e perciò più produttive: più capaci di sfamare il crescente ceto medio urbano. Una civiltà dei piccoli comuni e dell’impresa avanzata.
È evidente il gigantismo dell’impresa che si propone il governo cinese. Oltre al sostegno (finanziario, culturale, professionale) di cui avranno bisogno i contadini inurbati, ci sono le resistenze – come dimostra il boicottaggio dei dati sull’inquinamento – da parte degli interessi costituiti: speculatori immobiliari che puntano ai terreni agricoli per il proprio business, capitani d’industria (inquinante) che vogliono continuare a fare profitti, funzionari locali che prendono la mazzetta dagli uni e dagli altri e la cui carriera dipende dalla rigida crescita del Pil. Interessi fitti e intrecciati.
Tra i mille conflitti che attraversano l’Impero di Mezzo, quello interno al potere è forse il più decisivo. È la guerra sommersa tra un centro che spinge al cambiamento e mille periferie che coltivano i propri interessi localizzati. Come nel caso dei ripetuti crolli delle dinastie imperiali, rischia di essere letale.
[Scritto per Lettera43; foto credits: businessinsider.com ]