Domenica 20 dicembre sono scaduti i termini della pena detentiva del sesto stupratore del «Delhi Gangrape», all’epoca dei fatti minorenne. Dopo tre anni in carcere minorile, il ragazzo è tornato in libertà, mentre a New Delhi la famiglia di Jyoti Singh dava sfogo al proprio dolore con una manifestazione purtroppo, per chi scrive, assolutamente inopportuna.Il ragazzo – rimasto senza nome in quanto 17enne, al momento dell’arresto – faceva parte del gruppo di uomini che nel dicembre del 2012 assalì, violentò e brutalizzò la studentessa Jyoti Singh. Episodio tristemente celebre come il «Delhi Gangrape», che portò a una mobilitazione senza precedenti dell’opinione pubblica indiana (in gran parte studenti dei collettivi unversitari) contro l’inazione delle istituzioni di fronte alla piaga delle violenze sessuali nel paese.
Tutti, almeno qui a Delhi, hanno ancora vive nella memoria le immagini eccezionali di migliaia di giovani in manifestazione dal Gate of India lungo Rajpath, fino a pochi metri dalla residenza presidenziale di Rashtrapati Bhavan, a reclamare diritti e tutele per le ragazze e le donne del subcontinente, vittime della violenza di genere che in India attraversa senza soluzione di continuità tutte le religioni, le caste, gli strati sociali.
Gli studenti, allora, furono respinti a suon di manganelli e idranti, lasciando il campo alla protesta politica, che chiedeva – e otteneva, fino a un certo punto – misure repressive maggiori, nell’illusione che la discriminazione di genere e le violenze sessuali possano essere controllate con più poliziotti, più telecamere, più pena di morte – comminata a tutti gli imputati maggiorenni, per la prima volta in assoluto in un caso di violenza sessuale in India – più controlli. Delle iniziative che andavano in senso opposto rispetto alle richieste della maggior parte dei manifestanti del dicembre 2012 e, soprattutto, della Verma Commission, il pool di giudici che aveva ricevuto dal governo in carica (Manmohan Singh, Indian National Congress) il compito di stilare un rapporto che fosse una linea guida sulle misure legislative da prendere.
Il risultato è stato l‘introduzione della pena di morte per i colpevoli di stupro e una proposta di legge per ammettere, a livello legale, l’«eccezionalità» di un crimine così grave anche per quanto riguarda gli ipotetici stupratori minorenni, permettendo di scavalcare il Juvanile Act che invece impone come massimo della pena comminabile a un minore a tre anni di reclusione in un istituto minorile.
Per il minorenne del «Delhi Gangrape» il 20 dicembre scorso è arrivata la fine della pena. E la High Court di Delhi, attenendosi al codice indiano, ne ha disposto la rimessa in libertà, affidandolo temporaneamente a una Ong di New Delhi: evitando così un ritorno totale in libertà che, con ogni probabilità, per il ragazzo sarebbe significato morte per linciaggio quasi immediata.
Negli anni il carico emotivo che si è costruito intorno al minorenne, grazie alla collaborazione dei media indiani, è stato tragicamente eccezionale: il ragazzo, coperto dall’anonimato totale, è stato indicato come «il più violento ed efferrato» del gruppo di violentatori, senza però alcuna prova a sostegno della tesi.
In questo clima di vendetta, la finora compostissima famiglia di Jyoti Singh – quasi invisibile nei media nazionali fino alla messa in onda del documentario India’s Daughter – ha deciso di organizzare una serie di proteste nei luoghi che furono il simbolo del movimento studentesco post-16 dicembre 2012.
Domenica, mentre il ragazzo veniva liberato, assieme a qualche decina di «studenti» – non dei gruppi «di sinistra», che in un comunicato si sono sfilati dalla strumentalizzazione mediatica spiegando le ragioni della non adesione alla protesta – , hanno protestato nei pressi dell’India Gate, reclamando un inasprimento della pena che scongiurasse la messa in libertà dello stupratore (all’epoca dei fatti) minorenne.
Asha Devi, madre di Jyoti Singh, ha accomunato la scarcerazione dell’imputato al fallimento della propria promessa fatta alla figlia morente, una promessa di «giustizia». La signora Devi, parlando con gran parte dei media nazionali che da giorni presidiano la nuova casa dei Singh a Delhi Nord, ha mostrato la delusione per il «tradimento» subìto per mano dei politici – generico, senza specificare quali – che le avevano promesso giustizia. Ovvero: condannare a morte tutti gli imputati, compreso il minorenne. E invece ora permettono che il più giovane degli stupratori ritorni in libertà.
La famiglia Singh – comprensibilmente, con tutte le attenuanti dovute – assieme a una fetta non residuale dell’opinione pubblica indiana e a una parte consistente della politica nazionale – colpevolmente e per bieco calcolo politico – compie un macroscopico errore di valutazione circa la natura degli istituti detentivi e le applicazioni delle leggi nello stato di diritto indiano. L’obiettivo della pena, in una democrazia, deve essere il recupero del detenuto, non la punizione a soddisfazione della vittima (o della famiglia). E, soprattutto, le leggi devono essere formulate e applicate rispondendo alla collettività, non esclusivamente alle richieste della parte offesa.
Oggi il codice indiano indica precisamente che una pena detentiva per un minorenne non possa superare i tre anni, e il potere giuridico è obbligato a muoversi all’interno delle leggi a disposizione. Questo il senso della sentenza di lunedì 21 dicembre, dove la Corte suprema – rispondendo a una petizione lampo formulata dalla Commissione per le donne di New Delhi – ha spiegato di non poter bloccare la rimessa in libertà dell’imputato. Questa è la legge, e se non siete d’accordo dovete far passare una legge diversa.
Quella «legge diversa», che prevede l’introduzione di casi eccezionali secondo i quali un imputato minorenne potrà essere giudicato dal diritto che si applica per i maggiorenni, esiste ed ha passato il vaglio della Lok Sabha, la camera bassa del parlamento federale indiano; andandosi ad arenare in Rajya Sabha, la camera alta, nel mezzo di proteste che hanno bloccato i lavori del parlamento.
La conseguenza diretta di questo clima, secondo le indiscrezioni, dovrebbe aver portato a una promessa tra le parti politiche: sospendere i litigi in aula e far passare la legge entro i prossimi tre giorni (gli ultimi utili per la sessione invernale del parlamento indiano).
L’euforia vendicativa del momento, quindi, rischia di spianare la strada a una legge dalle conseguenze catastrofiche, in un paese dove tantissimi casi di «stupro» in realtà mascherano il braccio punitivo della società patriarcale contro la libertà sessuale dei giovani indiani. L’ennesima misura «punitiva» che non contribuirà in nessun modo alla lotta contro le violenze sessuali nel paese, che hanno radici «culturali» che pochissimi, in India, vogliono mettere in discussione.
[Scritto per East online; foto credit: huffingtonpost.com]