Ucraina, la prospettiva della Cina sui colloqui Trump-Putin

In Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Pechino plaude al negoziato tra Usa e Russia, affinando la sua postura e la sua retorica in direzione dell’occidente e del vicinato asiatico. Provando a ritagliarsi un ruolo per restare “a contatto” con amici e rivali

“Il dialogo e i negoziati sono l’unica strada percorribile per risolvere la crisi”. La Cina lo diceva a fine febbraio 2022, assorbito lo choc dell’invasione russa. E lo ripete anche tre anni dopo, quando Donald Trump e Vladimir Putin sembrano vicini a cercare un accordo che chiuda la guerra. La narrativa di Pechino cancella equilibrismi e ambiguità di quella che molti osservatori hanno definito “neutralità filorussa”. Operazione favorita dalle modalità con cui si inizia a immaginare la pace: per Kiev niente Nato, né ritorno ai confini pre 2014. Di fatto, secondo la Cina, condizioni simili o persino peggiori di quando si opponeva al continuo invio di armi da parte degli Stati uniti e dell’occidente. Con la differenza che nel frattempo il conto dei morti è continuato a peggiorare.

Tutti argomenti che Pechino conta di far pesare a livello retorico, sia nei suoi rapporti con Ucraina ed Europa, sia nella sua pretesa di costruzione identitaria di potenza responsabile. Anzi, ha già cominciato a farlo. Il tabloid nazionalista Global Times parla di “trappola americana all’Ucraina”, in cui “pasti gratis non esistono e il contro dell’Europa è salato”. Si accusano gli Stati unitidi aver prima “istigato la crisi gettando benzina sul fuoco” e poi per averla “sfruttata a proprio vantaggio”, facendo combattere gli ucraini salvo poi abbandonarli. Non a caso sui media statali si parla di “ritiro americano” dal conflitto, con una retorica simile a quella con la caduta di Kabul. Una strizzata d’occhio a Kiev e Bruxelles, che temono di restare escluse dai negoziati. Ma anche un messaggio trasversale al vicinato asiatico, a partire da Taiwan, Filippine e Giappone. Come a dire, parafrasando: non fatevi arruolare da Washington invece di parlare con noi, vi porteranno allo scontro e quando ne avrete più bisogno vi abbandoneranno.

Xi Jinping proverà a usare questi argomenti per migliorare le relazioni con il vicinato e coi paesi occidentali, favorito dalla possibile fine di un conflitto che ha rappresentato il maggiore ostacolo alla diplomazia cinese sia in Asia orientale che in Europa. Non è forse un caso che si parli di possibili visite del presidente cinese in Giappone e Corea del sud, principali alleati di Washington nella regione. Allo stesso tempo, Xi proverà a ritagliarsi un ruolo nel processo di disgelo fra Trump e Putin, magari favorendo la riapertura dei canali con la Corea del nord. L’obiettivo non sarebbe solo quello di proporsi a livello internazionale come i “grandi mediatori”, ma anche impedire un già (assai) complicato bis della manovra con cui durante la guerra fredda avvicinarono la Cina per isolare l’Unione sovietica.

D’altronde, il segretario alla Difesa americano Pete Hegseth l’ha detto esplicitamente: “Gli Usa non sono più principalmente concentrati sulla sicurezza dell’Europa” e vogliono dare “priorità alla deterrenza dalla guerra con la Cina nel Pacifico”. La preoccupazione di Pechino è mitigata dal precedente fissato da quanto accaduto in Ucraina: le sanzioni occidentali non sono bastate a far crollare la Russia, la cui stabilità interna è sempre stata la priorità del Partito comunista in tutta la vicenda ucraina. Non solo: gli Usa hanno mostrato di non essere disposti a combattere direttamente una guerra altrui, nemmeno quando la retorica sul conflitto ha raggiunto toni quasi apocalittici. Davvero sarebbero disposti a farlo su Taiwan o sul mar Cinese meridionale, peraltro dopo che le minacce di Trump su Panama e Groenlandia (oltre che su Gaza) sembrano indirettamente giustificare le rivendicazioni di un’altra grande potenza come la Cina su vicini più piccoli?

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]