Via al tour asiatico del presidente degli Stati uniti. In Malaysia, partecipa al summit dell’Asean e presenza alla firma di un accordo di pace tra Thailandia e Cambogia. In Giappone, spingerà su spese militari e investimenti. In Corea del sud, è chiamato a rilanciare i rapporti con Seul e (soprattutto) vedrà Xi Jinping. Non è da escludere un incontro con Kim Jong-un
L’Asia torna al centro. Oltre sei anni dopo l’ultima volta, torna Donald Trump per incontrare amici e rivali, con un’agenda densa ma corre sul filo tra concretezza e apparenza. Non una novità, per chi nel giugno 2019 ha visto correre il presidente degli Stati uniti nella zona demilitarizzata tra le due Coree per una breve passeggiata con Kim Jong-un. Prima di ripartire per Washington, Trump potrebbe anche tornarci. Lo ha auspicato lui stesso, ieri, mentre l’Air Force One era già pronto a portarlo verso la Malaysia. “Vorrei incontrarlo, ho avuto un ottimo rapporto con lui”, ha detto in riferimento al leader supremo nordcoreano. Poi, il passo ulteriore. “Pyongyang è una sorta di potenza nucleare. Quando dici che devono essere riconosciuti come potenza nucleare, beh, hanno molte armi”. Il messaggio non potrebbe essere più esplicito.
Qualche settimana fa, Kim si era detto aperto a nuovi colloqui, ma solo qualora gli Stati uniti avessero abbandonato l’obiettivo della denuclearizzazione. Una scelta che inquieta (e non poco) gli alleati asiatici dell’America. In primis il Giappone, forse meno la Corea del sud dove il nuovo presidente progressista Lee Jae-myung è favorevole a qualsiasi tentativo per riaprire le comunicazioni con Pyongyang. A Seul, mentre i sostenitori dell’ex leader rimosso Yoon Suk-yeol continuano a organizzare manifestazioni anti cinesi in vista dell’arrivo di Xi Jinping (che sarà protagonista di una visita di stato subito dopo Trump) definiscono “notevoli” le possibilità di un incontro Trump-Kim. Da capire quali sarebbero i suoi obiettivi, se non il fatto stesso che questo avvenga.
Ma, prima di allora, Trump avrà in ogni caso un’altra photo opportunity durante la tappa in Malaysia, dove in cima alla sua agenda c’è la presenza alla firma di un accordo di pace tra Thailandia e Cambogia. Con lui ci saranno i due premier: Anutin Charnvirakul, in ritardo a causa della morte della regina madre thailandese, e Hun Manet. Nella narrativa Maga, l’intervento della Casa bianca sarebbe stato decisivo per interrompere gli scontri armati di luglio. Trump parteciperà anche al summit dell’Asean, l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, per la prima volta dal 2017. Per i dieci paesi membri del blocco (che diventeranno 11 durante il vertice con l’adesione ufficiale di Timor est) questo incontro rappresenta un banco di prova: il commercio con gli Stati uniti e con la Cina è in bilico, a causa dei dazi americani che hanno colpito violentemente anche questa regione chiave per il rimodellamento delle catene di approvvigionamento globali.
Votata all’equilibrio fra le grandi potenze, l’Asean proverà a evitare di scegliere da che parte stare. Gli interventi del premier malese Anwar Ibrahim, che in qualità di presidente di turno del blocco ha scritto a Trump offrendo la riunione, indicano che Kuala Lumpur intende sfruttare la presenza americana per rinegoziare i termini commerciali e geopolitici. Al tempo stesso, la Cina (presente col premier Li Qiang) proverà ad apparire come punto di riferimento per la resilienza delle catene di fornitura, la stabilità regionale e la digitalizzazione delle economie asiatiche. Assente invece il premier indiano Narendra Modi, che ha preferito evitare l’incontro con Trump dopo le schermaglie su commercio e Pakistan.
A proposito di guerra commerciale, giovedì prossimo ci sarà l’attesissimo incontro con Xi a Busan, alla vigilia del vertice Apec. Già ieri sono iniziati in Malaysia i colloqui commerciali tra i due paesi, chiamati a una de escalation su chip e terre rare. Xi e Trump potrebbero annunciare una nuova tregua, difficilmente un’intesa. Sul tavolo anche guerra in Ucraina e Taiwan.
L’ultimo motivo di scontro è l’import di petrolio russo, su cui precedentemente Washington aveva imposto dazi punitivi solo per l’India. Dopo mesi di minacce e avvertimenti, la Casa bianca ha tirato fuori la “lunga mano” delle sanzioni secondarie contro tutte le imprese ed entità straniere che fanno affari con i giganti petroliferi russi Rosneft e Lukoil.
Pechino protesta: “Ci opponiamo all’uso delle questioni relative alla Russia come pretesto per imporre restrizioni commerciali alla Cina”, ha dichiarato due giorni fa il ministero degli esteri. Eppure, come svelato da Reuters, quattro delle principali compagnie petrolifere statali hanno scelto la strada della cautela, sospendendo gli acquisti di petrolio russo via mare. Il motivo è lo stesso che, nella primavera del 2024, aveva portato molte grandi banche cinesi a congelare o cancellare transazioni finanziarie per svariate centinaia di milioni di dollari con la Russia: il timore di sanzioni secondarie. Non si vuole rischiare di venire tagliati fuori dai servizi finanziari o assicurativi internazionali, così come dal commmercio di derivati energetici e prodotti raffinati come lubrificanti e polimeri industriali.
Non va però confuso lo stop, in parte temporaneo, con una concessione di Pechino agli Stati uniti. A differenza dell’India, vicina a un accordo commerciale con la Casa bianca, la Cina non ha preso e molto difficilmente prenderà impegni politici. La sospensione non riguarda peraltro tutte le importazioni di petrolio russo, ma solo una parte. Le quattro compagnie interessate importano direttamente via mare tra i 250 mila e i 500 mila barili al giorno da Mosca, su un totale di circa 2,3 milioni. Circa 900 mila barili arrivano attraverso gli oleodotti e, secondo la stessa Reuters, non dovrebbero subire impatti diretti dalle restrizioni. Il resto arriva sì via mare, ma tramite raffinerie indipendenti, difficilmente controllabili.
Come già accaduto sul petrolio iraniano, è lecito pensare che la Cina possa aumentare il peso degli acquisti via intermediari, tutelando le grandi compagnie. Negli scorsi anni, il cosiddetto sistema di “trasporto ombra” ha fatto sì che le importazioni dall’Iran proseguissero o addirittura aumentassero, seppur non ufficialmente.
Incontrandosi a Kuala Lumpur, il vicepremier cinese He Lifeng e il segretario al tesoro Scott Bessent devono porre le basi della de escalation. Washington chiede l’aumento degli acquisti di soia (che la Cina, principale importatore, ha drasticamente interrotto nel 2025) e un passo indietro sulle nuove restrizioni per la spedizione di terre rare. Pechino vuole in cambio non solo la cancellazione dei nuovi dazi aggiuntivi del 100% annunciati per il 1° novembre, ma anche (e soprattutto) l’attenuazione dei controlli all’export di software tecnologici e la rimozione di alcune barriere per gli investimenti. Si discuterà anche delle nuove tasse reciproche su porti e navi.
La soluzione, come sempre temporanea, dovrebbe includere l’ennesima proroga dell’entrata in vigore dei dazi. Ma su chip e terre rare, le principali armi negoziali dei due contendenti, è difficile immaginare svolte. La Cina non intende rimuovere il sistema di licenze governative per l’export dei materiali critici a elettronica e difesa. Al massimo arriveranno garanzie su certezza e rapidità del rilascio delle licenze, non per uso militare. In tal modo, Pechino conserva la possibilità di rimodulare il flusso a seconda dell’andamento dei rapporti futuri.
La potenziale nuova tregua sarà formalizzata giovedì 30 ottobre durante l’incontro tra Xi e Trump, che vorranno probabilmente presentare l’incontro come un successo, rivendicando però in modo incrociato una presunta posizione di forza. Consapevoli che la reciproca interdipendenza rende, almeno per ora, necessario stabilizzare il disaccordo.
Prima di allora, Trump incontrerà anche due teorici alleati: la premier ultraconservatrice del Giappone, Sanae Takaichi, e il presidente democratico della Corea del sud, Lee Jae-myung. Entrambi alla guida da poco, Takaichi da meno di una settimana, sono chiamati a soddisfare le esose richieste di Trump su investimenti e spese militari. Tokyo ha appena annunciato un aumento record del budget per la difesa, fino al 2,3% del pil, e l’obiettivo di rafforzare le capacità di deterrenza. Ma Washington vuole arrivare addirittura tra il 3 e il 5%. Ospitando il vertice Apec, Seul punta invece ad accreditarsi come tramite tra Usa e Cina e Lee prova ad ammansire Trump chiedendogli di agire come “portatore di pace”. Il pensiero corre alla zona demilitarizzata, nella speranza che un’eventuale nuova passeggiata tra Kim e Trump produca più di foto e video.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.
