Trent’anni di figli unici

In by Simone

Sabato 25 settembre, la “legge del figlio unico” cinese ha compiuto trent’anni: dalla lettera che il comitato centrale del PCC ha indirizzato ai suoi membri ed ai Giovani comunisti cinesi nel 1980, esortandoli ad avere un solo figlio per contribuire alla causa della crescita nazionale, la Cina a passi da gigante ha risalito la classifica dei Paesi in via di sviluppo a suon di percentuali di crescita strabilianti, e senza dubbio l’applicazione del controllo delle nascite ne è stato uno dei fattori determinanti, ma a che prezzo?

Iniziamo con lo specificare che la legge del figlio unico prevede che ogni figlio o figlia oltre il primogenito obblighi automaticamente la famiglia al pagamento di tasse aggiuntive per ripianare le risorse pubbliche (cibo, educazione, cure mediche…) delle quali il nuovo nato deve usufruire: in sostanza, la legge del figlio unico si basa su un calcolo delle risorse disponibili nella Repubblica Popolare divise per il numero di abitanti, una conta della serva che solo un Paese dittatoriale, in mancanza del principio di alternanza al governo, può permettersi di fare.

Alla legge principale sono state aggiunte nel tempo molte deroghe: le minoranze etniche (cinquantacinque gruppi riconosciuti in tutta la Cina) possono avere fino a due figli se residenti in zone urbane, quattro se in campagna; ai cinesi di etnia Han, il gruppo più numeroso qui in Cina, è permesso avere fino a due figli, se residenti nelle zone di campagna.

Oltre a queste regole generali, bisogna aggiungere una serie di peculiarità a livello regionale: nella municipalità di Pechino, che è gestita come una regione a statuto speciale, le coppie composte da due figli unici (non importa l’etnia) possono avere fino a due figli; stesso discorso per la regione centrale dello Henan, mentre in regioni colpite da disastri naturali, come il terremoto del Sichuan, si è registrato un rilassamento nell’applicazione della politica del figlio unico, permettendo a chi avesse perso un figlio nel terremoto di averne un altro.

La politica del figlio unico, sin dalla sua prima promulgazione nel 1979, poco dopo con le riforme di apertura di Deng Xiaoping, ha portato con sé gravi problemi di disparità di sessi nella popolazione cinese, fomentando l’infanticidio femminile specialmente nelle zone rurali, dove una primogenita femmina comportava problemi oggettivi nel ricambio della forza lavoro contadina, ed il fenomeno dei “figli invisibili”, non dichiarati alle autorità e spesso fatti nascere di nascosto, con tutte le complicazioni del caso.

Come risultato, secondo fonti governative, nel 2020 in Cina la popolazione maschile supererà quella femminile di ben 30 milioni di unità. Dati alla mano, pubblicati da tutti i principali media cinesi in questi giorni, in trent’anni si sono bloccate 400 milioni di nascite, evitando al governo la gestione di una meganazione da 1,7 miliardi di persone: grazie a questo contenimento demografico, sostengono gli esperti, la Cina ha potuto migliorare la maggior parte degli indici di benessere di un Paese. Solo per elencarne alcuni, l’aspettativa di vita è ad oggi oltre i 73 anni; le persone sotto la soglia di povertà sono crollate dai 250 milioni degli anni Settanta ai 40 milioni di oggi; ogni cinese oltre i 15 anni ha ricevuto una media di 8,5 anni d’istruzione, contro i 4,5 della fine del 1979.

Il PIL, qui e non solo brandito come indice definitivo di benessere, si è mantenuto stabilmente intorno all’8,6% di crescita annua, il doppio della media del resto del mondo.

Dopo 30 anni però, le conseguenze del controllo delle nascite si stanno facendo sempre più opprimenti: secondo delle tabelle ufficiali pubblicate nel forum del Global Times, quotidiano cinese in lingua inglese, nel 1995 c’erano 334 milioni di cinesi tra i 0 e i 14 anni, oggi ce ne sono 252 milioni, per un ribasso di oltre il 25%.

Ciò significa che quando tra il 2015 ed il 2020 la forza lavoro cinese raggiungerà il suo massimo storico, calcolato intorno ai 923 milioni di persone tra i 15 ed i 59 anni, il naturale invecchiamento generale della popolazione non sarà supportato da un efficiente ricambio generazionale, condannando la Cina a diventare entro il 2050 un Paese di vecchi a carico di pochissimi giovani in età da lavoro e con un sistema pensionistico ancora da definire.

Alla luce di queste previsioni, negli ambienti ufficiali ed intellettuali sta sempre prendendo più piede la convinzione di un cambio di passo, di una modifica sostanziale della politica del figlio unico che permetta alla Cina di continuare la sua crescita, magari mitigandola entro percentuali annuee più contenute, e di scongiurare l’avvento di una Repubblica Popolare della terza età: le recenti dichiarazioni ufficiali di funzionari del Guangdong, motore trainante dell’economia cinese, che annunciavano riforme meno vincolanti entro il 2030, sono state seccamente smentite dalla Commissione nazionale per il controllo della popolazione e delle famiglie cinese, l’organo del governo preposto al controllo delle nascite: “I cambiamenti storici non avvengono molto facilmente – ha dichiarato Li Bin, a capo della commissione – e per questo ringrazio tutta la popolazione per aver appoggiato la causa nazionale. Nei decenni a venire, la Cina continuerà ad applicare la politica di controllo delle nascite.”

Detta così, suona molto come una condanna.

[Foto da http://www.sexualityproject.org]