Il tempismo rende il terremoto un potenziale alleato del regime. A febbraio l’esercito manteneva il controllo solo sul 21% del territorio nazionale. “Tutto dipende dalla posizione della Cina e dell’Asia nei confronti del Myanmar a seguito della risposta al terremoto”.
Il numero delle vittime ha superato quota 3600, ma il bilancio reale potrebbe essere molto più alto. Il terremoto di magnitudo 7.7 che il 28 marzo ha scosso il Myanmar può già essere considerato una delle peggiori catastrofi umanitarie nella storia del Sud-Est asiatico: la US Geological Survey parla di 10.000 potenziali morti. Anche tra i sopravvissuti al sisma, l’effetto combinato di piogge anomale e caldo estremo potrebbe causare epidemie e malattie. Secondo la Caritas, serviranno almeno cinque anni “per una ricostruzione, non solo fisica ma anche del tessuto sociale”.
Quel che è peggio i danni del terremoto si aggiungono alla devastazione della guerra civile, che dal golpe militare del 2021 ha lasciato il paese con oltre 3 milioni di sfollati senza accesso a servizi essenziali. Secondo l’Onu, ancora prima del terremoto, più di un terzo della popolazione necessitava assistenza umanitaria. Per l’organizzazione, il termine più appropriato è “policrisi”, ovvero una crisi multidimensionale senza precedenti caratterizzata da instabilità politica, crollo dell’economia, scontri armati, cambiamento climatico e violazioni dei diritti umani. Quasi metà dei birmani vive ormai al di sotto della soglia di povertà.
Come avvenuto in passato durante emergenze simili, stando a numerose testimonianze, la giunta militare starebbe centellinando gli aiuti esteri, dirottando le forniture nelle regioni del paese sotto il suo controllo: Mandalay, Sagaing, compresa Naypyidaw, la capitale amministrativa costruita dai militari nel 2005 per fare le veci di Yangon, sono le zone più colpite dal sisma. Ma gravi danni sono stati segnalati anche nelle aree “ribelli” nel nord di Sagaing e nello stato Shan, al confine con Cina, Laos, e Thailandia, dove da decenni il potere politico, economico e militare, è conteso da milizie etniche ribelli. Qui, come nelle altre zone più remote del paese, è difficile stimare il reale impatto del disastro. Da quando la terra ha cominciato a tremare, il governo golpista ha limitato l’accesso al paese ai media internazionali.
Il timore è che gli uomini in divisa stiano sfruttando il caos del momento per colpire l’opposizione e guadagnare tempo per riuscire – come più volte promesso – a organizzare nuove elezioni entro quest’anno. Elezioni che, dopo lo scioglimento forzato della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi, si preannunciano una farsa. Un precedente, d’altronde, già c’è: il ciclone Nagris del 2008, anno in cui i militari avviarono presunte riforme democratiche, con il sostegno di Stati Uniti e Unione europea. A segnare il punto di svolta doveva essere un referendum costituzionale, che Human Rights Watch condannò a causa di “intimidazioni dell’opposizione politica e della popolazione in generale, negazione delle libertà fondamentali di espressione, associazione e riunione, e arresti e detenzioni arbitrarie”.
Il tempismo rende, quindi, il terremoto un potenziale alleato del regime. A febbraio l’esercito manteneva il controllo solo sul 21% del territorio nazionale, soprattutto nelle zone più densamente popolate e su alcune città principali, mentre ampie aree lungo le frontiere sono state riconquistate dalle milizie etniche e le altre forze della resistenza – le Forze di difesa popolare (PDF) – il braccio armato del Governo di unità nazionale (NUG), istituito da membri del parlamento estromessi dopo il colpo di stato con il riconoscimento di buona parte della comunità internazionale.
Secondo il Myanmar Peace Monitor, in tutto il paese 95 città sono tornate sotto il controllo della resistenza, che in alcuni casi ha già istituito nuove amministrazioni locali, ridisegnate lungo le linee etniche dei gruppi in lotta contro la giunta militare. Dal 29 marzo prima il NUG e poi la Three Brotherhood Alliance – coalizione di tre gruppi di resistenza etnica che conta il Myanmar National Democratic Alliance Army, il Ta’ang National Liberation Army e l’Arakan Army – hanno annunciato una tregua temporanea per permettere i soccorsi. I golpisti, invece, accolto il cessate il fuoco con reticenza, fino a venerdì hanno continuato a bombardare gli stati Karenni e Shan, uccidendo almeno cinque persone. Le vittime includono civili, secondo l’organizzazione Secondo Free Burma Rangers, che ha contato almeno sette attacchi militari dal congelamento degli scontri. Stime che si vanno ad aggiungere ai 50 civili morti e i 49 feriti nelle operazioni dell’aeronautica militare birmana, conteggiati dal NUG nei quattro giorni successivi al sisma.
Oltre a rafforzare la presa sul paese, la giunta sta strumentalizzando la tragedia per ottenere quel riconoscimento internazionale finora negatole dall’occidente. La diplomazia degli aiuti non si preclude nemmeno ai dittatori. Manifestazioni di solidarietà sono arrivate anche dal vicinato asiatico, dove lo scorso anno erano emerse già alcune aperture nei confronti di Naypyidaw. Per la prima volta dal golpe, il 4 aprile, il generale Min Aung Hlaing, presidente de facto, ha partecipato a Bangkok a un summit regionale delle nazioni dell’Asia meridionale e del Sud-Est asiatico, dove ha incontrato i leader di Nepal, Bhutan, Sri Lanka e Thailandia, paese quest’ultimo colpito a sua volta dal sisma.
Non tutto rema a favore dei militari. In Myanmar, dove geomanzia e superstizioni sono profondamente radicate, le calamità naturali sono considerate presagio di sventura per i potenti. Dopo il terremoto dell’agosto 1988 il governo militare di allora fu travolto dalle proteste pro-democrazia più massicce della storia birmana. Alcuni segnali di indebolimento ci sono già. Troppo impegnato a respingere i ribelli al confine, l’esercito ha ampiamente disertato le operazioni di soccorso nelle aree terremotate. Sintomo di una carenza di risorse umane ormai difficile da nascondere.
Nonostante nel febbraio 2024 l’esecutivo al potere abbia imposto due anni di servizio militare obbligatorio per uomini e donne di età superiore ai 18 anni, si stima che la fanteria leggera possa contare su appena 80.000 – 100.000 operativi, un numero relativamente piccolo per il secondo paese più grande dell’ASEAN. La disfunzionalità delle forze armate è uscita allo scoperto martedì, quando i soldati hanno aperto il fuoco (per errore o per avvertimento) su un convoglio della Croce rossa cinese a Nawngkhio, una municipalità dello stato Shan a nord di Mandalay.
Con gli aiuti americani nel freezer, Pechino si è dimostrato a oggi il partner più generoso in termini di assistenza operativa ed economica (13,7 milioni di dollari). Come spiega a Gariwo Anthony Ware della Deakin University, le forze di resistenza “non possono vincere sul campo di battaglia; l’unica speranza è farlo attraverso negoziati. Ciò richiederebbe un mix di pressioni interne e internazionali, quindi tutto dipende dalla posizione della Cina e dell’Asia nei confronti del Myanmar a seguito della risposta al terremoto”.
Se la crisi basterà a piegare Min Aung Hlaing e i suoi uomini, però, è tutto da vedere. Sebbene la giunta abbia accettato una tregua di venti giorni, l’accordo si è già dimostrato flebile. L’annoso conflitto con le milizie etniche rende, per il Myanmar, difficile replicare l’esperimento dell’Indonesia, che dopo lo tsunami del 2004 vide il governo raggiungere un’intesa con i ribelli Aceh per facilitare i soccorsi. “La carente risposta al terremoto non farà altro che aumentare la rabbia e il disgusto dell’opinione pubblica nei confronti dell’esercito al potere, già disprezzato da gran parte della popolazione”, prevede Joshua Kurlantzick, senior fellow del Council on Foreign Relations. Secondo l’esperto, l’esito più plausibile è anche il peggiore: il Myanmar diventerà “uno stato ancora più fallito e violento”.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwomag]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.