Tokyo halal

In by Gabriele Battaglia

L’apertura al turismo e all’immigrazione dai paesi di religione musulmana pare avere un effetto positivo sul grado di tolleranza dei giapponesi. È, in fondo, anche una questione di business. Il boom del cibo halal in Giappone ne è un esempio.  Fino a prima del 2013, i ristoranti halal in Giappone potevano contarsi sulla punta delle dita. Poi qualcosa è cambiato. Il boom del turismo — nel 2013 si sono superate le 10 milioni di presenze — ha portato nel paese arcipelago persone da ogni parte del mondo.

In particolare, oltre alla presenza cinese, è cresciuta la percentuale di turisti provenienti dal Sudest asiatico, in particolare di religione musulmana.

Nel 2015, ad esempio, i turisti indonesiani, in maggioranza musulmani, sono stati più di 200mila. Il numero è rilevante: si tratta infatti infatti del doppio gli appartenenti alla comunità musulmana locale — secondo le statistiche ufficiali, circa 100mila persone, concentrate principalmente a Tokyo e nelle grandi città.

E, così, con la presenza turistica è cresciuta anche la domanda di cibo halal, «permesso» in arabo, con ciò che ne consegue in termini di autorità di garanzia e sorveglianza sul rispetto delle regole coraniche per la produzione di cibo. Oggi le associazioni di questo tipo in Giappone sono almeno venti.

Il settore dell’accoglienza e dei servizi ancora arranca per la mancanza di informazioni in inglese, o la scarsa connettività (negli alberghi giapponesi sono ancora molto diffuse le connessioni LAN!). Ma qualcosa dal punto di vista dell’alimentazione sembra essersi mosso. In fondo, il cibo è uno step fondamentale per l’accoglienza; non solo per i turisti, ma anche per i sempre più numerosi residenti temporanei o di lungo termine.

Il governo del distretto di Taito, una delle zone più turistiche di Tokyo, ad esempio, ha deciso nel 2015 di stanziare un sussidio da 100mila yen (circa 825 euro) per ogni ristorante che si doti di certificazione halal. «Come rappresentanti di un’area che mira a essere leader nel turismo verso il nostro paese, dovevamo fare qualcosa», spiegava al Japan Times Takuji Kawai, dell’ufficio turistico distrettuale. «Siamo sorpresi dalla quantità di aziende interessate ai prodotti halal. Penso che ci siano grandi potenzialità di sviluppo».

Lo scorso anno numerose mense universitarie hanno iniziato a servire pasti halal, e pochi giorni fa, anche la Japan Airlines ha annunciato che fornirà cibo halal su alcune tratte internazionali.

In un articolo del Japan Times dello scorso febbraio offriva un quadro della situazione: a poco a poco, i tempi in cui il Giappone era un paese autosufficiente e virtualmente «chiuso» stanno finendo. L’invecchiamento della popolazione pone seri interrogativi sul futuro del paese senza politiche migratorie più flessibili.

In questo senso, il business del cibo halal rappresenta un’opportunità per le piccole e medie aziende alimentari giapponesi e per migliorare la cooperazione economica e commerciale con i vicini asiatici. Il Giappone è infatti partner storico di paesi a maggioranza musulmana, come Indonesia, Malaysia, ed è sempre più vicino — in termini di cooperazione economica e di sviluppo di risorse umane — a paesi come il Bangladesh. Con una mossa a sorpresa, il governo Abe ha inoltre dato il via all’ingresso di 150 profughi siriani come studenti in scambio per 5 anni nelle università giapponesi.

Nell’articolo, si sottolineava, d’altra parte, la permanenza di stereotipi sull’Islam. In particolare la paura dell’estremismo, alimentata nel corso del 2015 e 2016 dall’ascesa dell’Isis, dalle immagini sulla fine di Kenji Goto e Haruna Yukawa in Siria, e infine dagli attentati di Parigi e Bruxelles, sembra difficilmente superabile.

Altre iniziative dal basso hanno provato a rompere questa barriera. Negli scorsi giorni, il Tokyo Camii & Turkish Culture Center di Shibuya, la più grande moschea di Tokyo, negli scorsi giorni ha accolto oltre 300 studenti provenienti da una scuola pubblica della provincia di Saitama, a pochi chilometri dalla capitale. Un’esperienza formativa e preparatoria: il prossimo autunno i giovani passeranno infatti alcuni giorni in Malaysia a stretto contatto con famiglie nelle zone rurali.

«Voglio che gli studenti vedano persone all’interno della stessa comunità islamica coabitare e sostenersi l’un con l’altro», ha spiegato al quotidiano una delle docenti alla guida del progetto, Akiko Kobayashi. «Spero che ciò li aiuti a capire che l’Islam è una religione di pace. Voglio che si liberino di tutti i loro preconcetti».

[Scritto per East online]