I laojiao, o campi di lavoro, ospitano, secondo le statistiche ufficiali circa 300 mila cinesi. Negli ultimi anni hanno accolto piccoli criminali, prostitute, tossicodipendenti e nemici del Partito, spesso rinchiusi senza giusto processo. Entro marzo prossimo, però, potrebbero essere aboliti. Ci finiscono le persone che vengono colte in gesti o attività che sono in bilico tra “il crimine e l’errore”, come ebbe a dire James D. Seymour studioso dei sistemi penali in Cina. Si tratta dei laojiao, abbreviazione di laodong jiaoyang, i campi di lavoro.
Secondo quanto sta emergendo dalla stampa locale, sarebbe ormai imminente l’ufficialità circa la fine del sistema di detenzione nei campi di lavoro: un segnale importante in questo inizio del 2013, seppure nel composito e complicato magma cinese riguardo i diritti umani. Ad annunciare l’abolizione – anche se gli organi di stampa locali hanno riportato la notizia sotto l’etichetta di una potenziale “riforma” – è stato Meng Jianzhu, capo della commissione che all’interno del Partito comunista si occupa degli affari legali.
Nel gioco dei ruoli e dell’importanza delle parole di certi esponenti, Meng è uno che conta al riguardo: l’abolizione, ha detto il funzionario di partito, avverrà durante la prossima Assemblea Nazionale, il Parlamento cinese, che si radunerà a Pechino a marzo. Secondo le statistiche fornite dalla autorità, e ribadite ieri sera da un servizio della televisione di Stato, in Cina esisterebbero 310 campi di lavoro, con 300mila prigionieri e oltre 100mila addetti ai lavori.
Innanzitutto è opportuna una precisazione: i laojiao non sono i laogai, ovvero i campi di lavoro forzati in cui venivano rinchiuse persone condannate penalmente. I laogai, infatti, sono stati sospesi nel 1997. I laojiao, invece, ricevono le persone condannate in via amministrativa o senza processo e sono ad oggi pieni di piccoli delinquenti, prostitute o persone che hanno la colpa di aver commesso “errori” (ad esempio postare un messaggio anti governativo su internet, irritare il funzionario sbagliato). Si tratta di un’istituzione fastidiosa, di fatto un sopruso autoritario, per altro ben poco regolamentato dall’arretrato sistema giudiziario cinese.
“Nella maggioranza dei casi – ha scritto in Crime, punishment and policing in China (2008) Borge Bakken dell’università di Hong Kong – i condannati sono posti nei campi di lavoro dalla polizia, senza neanche processo. L’amministrazione detentiva può durare fino a quattro anni”. E pare che ormai sia agli sgoccioli.
Le richieste di una riforma del sistema, del resto, affondano negli anni ’80 quando furono molti gli intellettuali che nel clima di aperture economiche, richiesero cambiamenti anche delle strutture detentive, create negli anni ’50 da Mao Zedong con chiari intenti politici, per soffocare i cosiddetti “nemici di classe”.
Nell’ambito del dibattito politico che è seguito all’annuncio di Meng, non pochi analisti hanno sottolineato come l’abolizione del laojiao potrebbe rappresentare un viatico a ulteriori riforme volute dal nuovo leader Xi Jinping, approfittando anche del pensionamento dell’artefice supremo della teoria del “mantenimento della stabilità”, operato a colpi di detenzioni illegali, ovvero l’ex zar della sicurezza cinese Zhou Yongkang, personaggio oscuro, dalle mille trame (la sua famiglia controlla il settore petrolifero nazionale) e fautore di un clamoroso aumento delle operazioni di sicurezza.
Nel caso dei laojiao, poi, l’arbitrarietà del sistema giuridico cinese si evince in tutta la sua opacità: lo scorso anno divenne celebre in Cina la vicenda di Ren Jianyu, 25 anni, un ex funzionario di villaggio che ha trascorso quindici mesi in un campo di lavoro di Chongqing per aver postato on line le critiche al governo locale sul suo microblog. “Il periodo di vita nel campo di lavoro è stato faticoso e deprimente”, ha detto Ren. Lui era stato assegnato a produrre cannucce per il sistema sanitario nazionale: “il campo di lavoro – ha detto – elimina i diritti ai cittadini, è un semplice strumento in mano dei funzionari per sbarazzarsi di gente come me”.
Fan Sidong è un cinese che ha trascorso il periodo tra il 1983 e il 1994 in un campo di lavoro nel Xinjiang, la regione autonoma nel nord ovest cinese. Ha lasciato la sua testimonianza all’interna di un libro, New Ghosts, Old Ghosts: Prisons and Labor Reform Camps in China (1998) curato da esperti dei sistemi penitenziari cinesi: “La violazione dei diritti era quotidiana, ha scritto, ore di lavoro, impossibilità a chiedere colloqui, angherie e soprusi continui da parte delle guardie che spesso istigavano i prigionieri a commettere violenze tra di loro. E l’ironia della sorte, specie nei campi di lavoro del nord ovest cinese, è che molti dei cosiddetti criminali erano gestiti da delinquenti ben peggiori, che semplicemente avevano il potere datogli dalla loro uniforme”.