Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
8 settembre 2010, 11:13
Lenta cottura
E dunque ieri partiamo per la spedizione Coda alla vaccinara. Tavolo prenotato da Piperno al ghetto.
Siamo circondati da turisti e sono indecisa se questo fatto costituisca fonte di ulteriore vergogna o meno. Già in taxi ho un saggio della sue brillanti domande. Si gira rigido e automatico verso di me e, mentre mi aspetto mi chieda, che so, delle mie vacanze, di Fini, o persino del tempo previsto nei prossimi giorni, lui mi fa: “So, can you tell me which image you have on your mind when you think about Coda alla vaccinara?”.
Qualcuno sa spiegarmi che cazzo di domanda è?
La ripeterà uguale, anzi approfondendola, alla proprietaria del ristorante. Una volta arrivati lì, lo spingo a ordinare prima di tutto i carciofi alla giudia, e se ne esce (con il piatto davanti, quindi non si tratta di un’incomprensione linguistica) con un’altra sorprendente domanda: “Che cosa sono? Fiori o frutta?”. Passiamo oltre anche su questo: in fondo in Giappone i carciofi non ce l’hanno.
Poi il cameriere torna e brandisce il piatto della Coda alla vaccinara. Lui lo ferma e inizia una serie di fotografie: braccio più in alto, braccio più in basso, braccio esteso, un po’ più vicino alla spalla. La scenetta dura un bel pezzo e un gruppo di americani che pranzano lì vicino commentano: “A serious photographer”, a cui lui, non capisco se ringalluzzito o se piccato, replica: “Yes, defintely I am”.
Nel pranzo chiacchieriamo. Quando penso, ah, finalmente si scioglie, lui uccide ogni mia speranza con frasi cerimoniose come: “Vorrei utilizzare questo bicchiere di vino per ringraziarti per il tuo prezioso contributo e per inaugurare la nostra giornata lavorativa”. Onestamente, mentre lui mi dice tutto questo con tanto di piegamento verso il basso della testa, i miei istinti più brutali, popolani, pecorecci e sovversivi, mi imporrebbero di rispondere con un rutto. Invece chino anch’io educatamente il capo.
Mi racconta che un suo collega giapponese ha seguito gratuitamente un corso di italiano in una scuola, penso mi voglia chiedere informazioni su questo, poi capisco che il vero centro del discorso è sul nome dell’istituto – lui ne è rimasto sconvolto: Antonio Gramsci. Gli dico: “per un italiano non c’è nulla di incredibile”. Lui dice: “per me sì, pensare che un leader del comunismo abbia una scuola dedicata…”. Mi limito a sottolineare il ruolo intellettuale oltre che politico di Gramsci. Comunque. Non sono queste le discussioni che mi turbano. Anzi.
Quello che segue mi affatica assai di più nella mia incipiente digestione: la proprietaria del locale si siede con noi per rispondere alle sue domande. Inizia la tortura: "Qual’è l’immagine che lei ha sulla coda alla vaccinara? E che significa “cibo povero”? E che cos’ha di speciale questo piatto? Quale emozione vorrebbe che provasse un turista che sperimenta questo cibo? Io ho mangiato la coda con i carciofi, va bene come abbinamento (questa e tutta la serie di domande sugli abbinamenti erano incredibili!)? Posso mangiare solo la Coda alla vaccinara in un pasto? Va bene per tutte le età? Come si cuoce? Fuoco alto o basso?”.
Andiamo via, ma le domande non sono finite. Stamattina trovo sulla mia scrivania una serie di richieste sulle erbe stagionali e sul momento giusto in cui aggiungerle alla cottura.
Io mi sento ri-bollire a fuoco (ormai) molto alto.
8 settembre 2010, 15:51
Che spreco
Ancora non ho capito quando lui arriva e quando se ne va dall’ufficio. In qualunque orario lo trovi sempre lì, come fosse un pezzo dell’arredamento che non può esistere al di fuori dello spazio lavorativo.
Leggo questo articolo e una grande tristezza mi assale all’idea che per le donne giapponesi è anche peggio.
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)