Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
16 dicembre 2009, 11:48
In your shoes
Per un momento mi sono immedesimata in lui. Quando parte con i suoi interminabili monologhi sul clash of civilization, sugli occidentali che non sanno niente dell’Oriente, sulla presunzione dell’Ovest eccetera eccetera. Per un momento l’ho capito e ho annuito mentalmente.
C’era l’interprete cinese in ufficio. E quella strana ero diventata io. Il ragazzo cinese armeggiava con il biglietto da visita del giapponese, si scambiavano commenti sugli ideogrammi, su come si leggevano in cinese o in giapponese. In qualche modo, con mio stupore (lui non ha troppo in simpatia i cinesi) e curiosità, familiarizzavano.
Il mio povero e umile sistema alfabetico mi è sembrato improvvisamente desueto e inutile.
La comprensione è durata solo quel momento.
A pranzo, lui cerca di portarmi di nuovo su temi battuti, ribattuti e dibattuti in tutte le forme possibili (la più frequentata resta sempre una: il soliloquio, il suo). Decido di non provarci nemmeno per un secondo a rispondere. Il discorso è sull’integrazione: nello specifico,sui minareti e l’uso dei simboli religiosi. Lui esprime sempre forti dubbi sulla realizzabilità dell’integrazione. Per farla breve, la sua tesi è: se una comunità non vuole una moschea vicino a una chiesa, bisogna rispettare quella volontà. Un’affermazione generica al massimo. Ho provato per un attimo a obiettare che ci devono essere leggi sovraordinate che consentano a tutti la libertà religiosa e che non mi sembrava né giusto né utile impedire la costruzione di luoghi di culto. Si è inalberato e mi ha risposto: “Non è questione di quello che io ritengo giusto, ma di quello che i cittadini di uno Stato vogliono”. Mah.
Fa il pari con quando mi disse: “Se io fossi italiano, probabilmente voterei Pdl o persino Lega; se invece, come straniero quale sono, dovessi votare in Italia, probabilmente voterei Pd”. Perché, dice, è comprensibile che un italiano non voglia una presenza così massiccia di stranieri e che dunque dia il suo voto a chi tutela tale interesse. Quando cerco di replicare, mi chiama ideologica e motiva così le sue posizioni: in quanto giornalista, sono abituato a separare la mia valutazione personale e la valutazione obiettiva delle cose. Non a caso, ci tiene sempre a precisare, qualunque cosa dica: “Non ha niente a che fare con quello che io ritengo giusto o sbagliato”. Mi sembra solo un modo – peraltro poco scaltro – per non prendere posizione. E poi questa elucubrazione sul voto, diverso se lo do come italiano o come straniero. Ma che vuol dire? E poi il voto non è lavoro, uno può addirittura esprimere la propria idea: qualcuno glielo dica!
16 dicembre 2009, 11:54
Il travaglio che tartaglia
Ogni tanto mi chiedo di quale Italia parlo con lui, quando parliamo di Italia.
Gli chiedo un commento sulla vicenda di Berlusconi colpito a Milano.
"There’s nothing to say, it was just a crazy guy".
"I agree", gli dico io, e gli spiego che volevo sapere cosa ne pensava di questo clima d’odio di cui tanto si parla. L’argomento non lo appassiona proprio, non esiste per lui, come se non fossero esistiti i dibattiti di questi giorni e i titoli di giornale.
Quasi lo invidio.
Poi mi viene un momento di scoramento. Quando mi dice, ridendo: "La vera domanda è se Travaglio sia stato pagato… quella sarebbe la cosa da capire"
Ci penso su un attimo e poi gli chiedo: "In che senso?"
"Nel senso: pensa se Travaglio fosse stato pagato per colpire Berlusconi"
Finalmente capisco: "Ma no, ti sei confuso. Travaglio è il giornalista, quello che ha colpito Berlusconi si chiama Tartaglia!".
E io che pensavo avesse elaborato una teoria tutta sua su insospettabili connivenze tra Travaglio e Berlusconi!
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)