Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
10 maggio 2010, 23:14
Aloha
A Pisa. Mi ci ha condotto un po’ con l’inganno, visto che dobbiamo andare a Bolgheri, ma tant’è. Solo quando ho ceduto, ha confessato la vera ragione: "Non sono mai stato a Pisa". Così mi ritrovo sulla torre di Pisa, ovviamente a scattare foto, e a cercare di rispondere a una serie di domande a raffica sulla storia della città, sui Cavalieri di Santo Stefano, sull’altezza della torre e l’esperimento di Galileo. Ma sono un po’ deludente, non ricordo granché.
Mi trascino affaticata e indolente per tutto il giorno senza grande capacità di interazione. A cena, poiché indosso una Lacoste, inizia a enumerare le marche di polo che andavano di moda dagli anni Settanta a oggi. Poi si mette a dire che possiede una camicia Aloha – la chiama proprio così – e che, un giorno la portava passeggiando per Tokyo, ma notò che la gente si scansava. Mi spiega il motivo: sospettavano fosse uno Yakuza (o magari era per un impeto di repulsione estetica, penso io).
Conclude il sintetico aneddoto con un "I did a lot of things in my life". Sono troppo demotivata per domandargli se, nel novero delle gesta, davvero considera anche lo sfoggio di una camicia Aloha. Magari c’è un sottotesto che mi manca (lo spero).
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)