La Thailandia ha subito un monsone particolarmante violento quest’anno. Non ha smesso di piovere da luglio scorso. Il Paese è oggi completamente sommerso e il bilancio delle vittime ha superato le 360 persone. La capitale, Bangkok, è stata tenuta all’asciutto. Almeno fino ad adesso. Intanto la situazione non fa che acuire la crisi politica latente. E già si parla di "golpe d’acqua". Il nostro reportage.
Un uomo che rema alla stessa altezza delle insegne dei negozi. Un pescatore che getta le reti in pieno centro. Un pugno di residenti che riesce a catturare un coccodrillo scappato da un allevamento prima che questo si inabissi al semaforo.
Sono queste, da ormai due mesi a questa parte, le immagini quotidiane di due milioni e mezzo di persone nel centro della Thailandia: un’area – in continua espansione – dove tutto ciò che si vede è acqua. Chilometri e chilometri di acqua ferma in cui si riproducono zanzare e in cui galleggiano rifiuti e cadaveri mezzi putrefatti di cani, maiali e altri animali domestici. Una distesa infinita e immobile di acqua la cui visione prolungata – avvertono gli esperti – può dare alla testa.
È anche per alleviare questo stress psicologico che ogni giorno masse di sfollati s’incamminano con l’acqua fino al petto e un paio di borse riempite dello stretto indispensabile – medicinali, pochi oggetti di valore e magari un cane – verso i centri di accoglienza arrangiati dalle autorità all’interno dei templi buddisti e nei piani alti delle scuole e degli edifici comunali. Ma c’è anche chi si rifiuta di lasciare le proprie abitazioni: dagli anziani irremovibili nelle loro stanze già mezze allagate a chi, per paura degli sciacalli, si barrica nei piani più alti della sua casa costringendo i soccorsi a una distribuzione di viveri ancora più disordinata e difficile.
I morti – annegati, fulminati a causa di corto circuiti, morsi dai serpenti velenosi che, come gli esseri umani, cercano rifugio nei pochi luoghi ancora asciutti – sono oltre 360 e il numero sembra inesorabilmente destinato a crescere. Infezioni batteriche, dissenteria, problemi respiratori, dengue, scarsità di viveri e di acqua potabile… tutti elementi che potrebbero trasformare questo già difficile momento nazionale in una vera e propria catastrofe umanitaria. Come se le cifre del Pil, che le stime ufficiali vedono già abbassarsi di almeno due punti percentuali, e quelle dei danni, che fino ad ora sembrano ammontare a sei miliardi di dollari, non fossero da sole abbastanza spaventose.
In un paese la cui proverbiale tolleranza buddista sembra da qualche anno venir meno per via di una crisi politica che pare non avere fine, le accuse sono già partite. Prima di tutte, quelle mosse dalle provincie alla città di Bangkok che, barricata per prevenire la benché minima infiltrazione dalle campagne, è rimasta asciuttissima durante l’intera emergenza. Una spaccatura che sembra riflettere la disparità tra i poveri delle campagne e i ricchi della metropoli. Quella stessa disparità che solo un anno e mezzo fa ha portato le camicie rosse a scontrarsi con l’esercito in un massacro che ha macchiato le strade della capitale del sangue di un centinaio di persone.
Seguono le accuse alla premier “rossa” Yingluck Shinawatra, indubbiamente sorpresa a poco più di due mesi dalla sua vittoria elettorale dalle inondazioni peggiori degli ultimi cinquant’anni, fortemente criticata per non aver gestito l’emergenza in modo appropriato e non aver fornito informazioni chiare alla popolazione riguardo agli allagamenti.
Quindi le parole forti da parte dell’opposizione: in particolare dal primo ministro uscente Abhisit Vejjajiwa, il rampollo dell’élite bangkokiana che soltanto un anno e mezzo fa ordinava ai militari di aprire il fuoco sulle camicie rosse, che ha chiesto alla Shinawatra di invocare lo stato di emergenza per dare piena autorità all’esercito. Un’opzione che deve aver fatto rabbrividire la Shinawatra, dopo che lo stesso esercito nel 2006 aveva rovesciato con un colpo di stato il governo di suo fratello Thaksin, spianando la strada a quella crisi politica che ancora oggi non ha fine.
Sin dall’inizio delle inondazioni è emerso lampante il rapporto gelido tra l’amministrazione entrante e l’esercito, criticato per non avere mosso un dito per arginare l’emergenza: comportamento che molti hanno interpretato come un ammutinamento militare per infangare il governo Shinawatra e costringerlo a dichiarare lo stato di emergenza. E c’è già chi parla di un “golpe d’acqua”.
La Shinawatra, mentre le piogge inondavano le campagne thailandesi, si è trovata tra due fuochi, divisa tra l’opzione di aprire i canali della capitale – punto di transito necessario per convogliare le acque dalle provincie al mare – alle campagne, con il rischio di coinvolgere il cuore commerciale del paese negli allagamenti, e quella di continuare a proteggere gli interessi dei bangkokiani, tradendo però la fiducia dei suoi sostenitori di campagna e rischiando un’ecatombe.
Sarà per questo che, dopo infiniti tentennamenti, ha deciso di avvalersi della legge speciale per le calamità naturali che le conferisce piena autorità (anche sulle forze armate) e ha ordinato di aprire alcuni dei canali della capitale per facilitare il drenaggio delle acque circostanti. Una scelta politicamente coraggiosa ma dalle timide conseguenze concrete. La stessa premier ha ammesso che le acque delle campagne, aprendo i canali di Bangkok, non defluiranno prima di sei settimane.
A Bangkok i cittadini in preda al panico già da settimane hanno lasciato le mensole dei supermercati vuote, barricato gli usci delle proprie case con sacchi di sabbia e muri di cemento, parcheggiato le automobili in mezzo alla strada e sulle sopraelevate e fatto persino rifornimento di giubbetti di salvataggio quando le previsioni più pessimistiche hanno parlato di allagamenti difficilmente superiori al mezzo metro. Ora si preparano ad accogliere la prima razione d’acqua.
Nel frattempo, dietro le quinte della politica tailandese, i soliti giochi di potere sembrano andare avanti incuranti dell’emergenza umanitaria. Le divisioni sociali, economiche e politiche si specchiano sempre più evidenti nelle acque di un paese mezzo sommerso. In attesa che tutto sia asciutto di nuovo per tornare ad esplodere più forti che mai.
[Foto credits: www2.journalnow.com]* Edoardo Siani vive in Thailandia dal 2002. Lavora come insegnante di inglese e di italiano e come interprete per la polizia locale. Sta raccontando gli anni trascorsi in uno slum di Bangkok in un libro.