Si tratta di uno dei più gravi attacchi subìti dall’esercito indiano di stanza in Kashmir. Domenica 18 settembre, per la seconda volta in meno di un anno, un gruppo di uomini armati è riuscito a infiltrarsi all’interno di una base militare – dopo Pathankot, nel mese di gennaio, è stata la volta di Uri – sferrando un attacco a sorpresa neutralizzato dopo tre ore di scontro a fuoco. I media e i politici indiani hanno immediatamente accusato le autorità pakistane, ma da Islamabad negano e rincarano evidenziando le atrocità commesse dall’esercito di New Delhi contro i civili kashmiri.All’alba di domenica 18 settembre quattro uomini armati sono penetrati all’interno della base militare indiana di Uri, a una ventina di chilometri dalla Linea di controllo, il confine cuscinetto che divide l’India dal Pakistan lungo la regione contesa del Kashmir.
Il commando ha attaccato le truppe indiane alloggiate temporaneamente in tendoni all’interno del perimetro della base, procedura standard durante i periodi di avvicendamento dei battaglioni in servizio nella base e momento tra i più delicati per le misure di sicurezza in vigore negli insediamenti militari indiani in Kashmir. I quattro uomini, cogliendo di sorpresa i militari indiani, hanno aperto il fuoco con proiettili regolari e incendiari, lasciando a terra 18 morti e almeno 20 feriti, molti dei quali pare siano in condizioni critiche.
L’attacco, secondo la ricostruzione della stampa indiana, è stato neutralizzato nel giro di tre ore, in seguito a uno scontro a fuoco tra i militari e uno dei quattro miliziani, l’unico a sopravvivere alle primissime fasi del blitz.
La reazione indiana, per ora solo verbale, è stata violentissima. Il ministro degli interni Rajnath Singh, in una conferenza stampa, ha accusato direttamente Islamabad di essere responsabile dell’attentato, chiamando il Pakistan «stato terrorista», seguito a ruota dalla stragrande maggioranza dei politici e commentatori indiani. Fonti militari hanno rivelato che i quattro, di cui ancora non si conoscono i nomi, sarebbero stati miliziani di Jaish-e-Mohammad, sigla terroristica pakistana già individuata come responsabile del precedente attacco alla base di Pathankot. Deduzione supportata dal ritrovamento, sempre secondo fonti militari indiane, di Ak-47 pakistani e note scritte in lingua pashto.
Accuse che da Islamabad vengono rispedite al mittente, escludendo l’ipotesi di falle nel sistema di sicurezza pakistano descritto come «ermetico», a prova di penetrazioni attraverso la Linea di controllo da parte pakistana.
Attraverso un comunicato, il primo ministro indiano Narendra Modi ha fatto sapere che «l’attacco non resterà impunito», aumentando i timori di una vendetta armata indiana imminente. La stampa indiana parla di «attacchi mirati oltre confine» che potrebbero essere condotti «a tempo debito».
L’attentato alla base di Uri arriva in un momento delicatissimo delle relazioni tra New Delhi e Islamabad. Le prove generali di dialogo avviate dalle rispettive leadership lo scorso anno – con visita a sorpresa di Modi in Pakistan per il compleanno del premier pakistano Nawaz Sharif – si sono definitivamente arenate in seguito all’attacco di Pathankot, congelando i tavoli di discussione aperti tra le parti. La linea del dialogo, da allora, sarebbe stata sacrificata in favore di una posizione più intransigente e minacciosa di New Delhi, che molti descrivono ispirata dal principale advisor per la sicurezza di Modi, l’ex agente segreto Ajit Doval.
Dal lato pakistano, le autorità continuano a negare coinvolgimenti nelle azioni terroristiche condotte oltreconfine, rifiutando le teorie indiane che vorrebbero Islamabad come burattinaio occulto del terrorismo pakistano. Uno stratagemma, secondo New Delhi, che permetterebbe alle istituzioni pakistane di dirsi estranee a qualsiasi violenza, conducendo nel frattempo un conflitto a bassa intensità. Dato il caos imperante in Pakistan, un paese dove non è mai chiaro se le decisioni siano prese dalla politica, dai militari, dai servizi segreti o dai servizi deviati, le ipotesi di coinvolgimento ed estraneità delle autorità pakistane in questo tipo di azioni sono impossibili da escludere categoricamente. Anche se è pacifico che il Pakistan abbia offerto e continui a offrire uno status di impunità a diversi leader di sigle terroriste islamiche responsabili di attentati contro l’India nell’ultimo decennio.
Ma nel frattempo la politica pakistana si sta esponendo pubblicamente contro la condotta delle forze di sicurezza indiane in Kashmir, accusate di azioni indiscriminate contro i manifestanti civili della valle. L’ultima ondata di proteste in Kashmir, in atto da mesi, è stata repressa nel sangue dai militari indiani, uccidendo almeno 80 civili e ferendone a migliaia, in aggiunta alle ormai tradizionali misure marziale adottate nell’area: coprifuoco, posti di blocco, sospensione delle comunicazioni.
Una condotta che il premier pakistano Nawaz Sharif ha annunciato di voler denunciare pubblicamente durante la prossima assemblea delle Nazioni Unite, che si terrà in settimana a New York. Appuntamento che Narendra Modi diserterà, mandando in sua vece la ministra degli esteri Sushma Swaraj, e che ora, dopo Uri, sarà di cruciale importanza per misurare la tensione dei rapporti indo-pakistani.
[Scritto per Eastonline]