I 24 parlamentari dell’opposizione restano al loro posto. Contesto, implicazioni e scenari. Lai Ching-te verso gli Stati Uniti ad agosto, le esercitazioni annuali Han Kuang, i chip di Tsmc da Trump, si spegne l’ultimo reattore nucleare, Pechino e Taipei si sfidano sulla Storia e altre notizie. La rubrica di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
“Ce l’ha fatta anche Yuan-chih? Allora è un trionfo”. In casa Guomindang (Gmd), corre un entusiasmo in larga parte inaspettato. Nemmeno un paio d’ore dopo la chiusura delle urne per il più esteso voto di revoca della storia di Taiwan, è già chiaro che tutti e 24 i parlamentari d’opposizione resteranno al loro posto. “È assurdo, non pensavo ci fossero così tante persone inconsapevoli delle necessità di difendere la nostra democrazia”, sospira invece Yu-chen mentre sale sulla bici, indossando una fascia verde (il colore simbolo del Partito progressista democratico, Dpp) con la scritta “vero taiwanese”.
Nei piani del presidente Lai Ching-te, le urne di sabato 26 luglio avrebbero dovuto compattare Taiwan e lo Yuan legislativo, aprendo alla riconquista della maggioranza parlamentare persa alle elezioni del 2024. Invece che unire, però, il percorso che ha portato al voto di revoca pare avere ulteriormente diviso.
Tutto è cominciato con un movimento di protesta civile contro i due partiti d’opposizione, Gmd e Partito del popolo di Taiwan (Tpp, che ha visto “sopravvivere” al voto di revoca la sua sindaca di Hsinchu, e il cui leader Ko Wen-je si è visto estendere di altri due mesi la detenzione in attesa di un processo per corruzione), che uniti hanno la maggioranza parlamentare. Nel mirino le riforme tese a estendere il potere legislativo, i tagli al budget fiscale e il congelamento di alcuni fondi destinati alla difesa, il tutto in una fase in cui la pressione militare di Pechino è notevole. Sotto accusa anche il blocco delle nomine dei giudici della Corte costituzionale.
Alla guida dei promotori della raccolta firme per il voto di revoca c’è Robert Tsao, ex magnate dei chip a lungo in conflitto con Taipei per aver portato tecnologia strategica in Cina continentale, prima di tornare annunciando investimenti per contribuire alla difesa “anti comunista” di Taiwan. Obiettivo: “evitare la fine di Hong Kong”.
Il Dpp ha presto cavalcato la situazione, accusando i rivali di voler paralizzare Taiwan, favorendo la Cina e complicando gli sforzi per rafforzare la sicurezza dell’isola. Lo stesso Lai, in uno dei suoi recenti “discorsi per l’unità nazionale” (ne ha annunciati 10, ne ha pronunciati sin qui 4: qui, qui, qui e qui), ha esplicitamente appoggiato la rimozione di massa: “Attraverso le elezioni e i voti di revoca, volta dopo volta, elimineremo le impurità come si fa con il ferro per ottenere l’acciaio, ed è così che difenderemo Taiwan”. L’uscita ha generato diverse polemiche, mentre sui media statali cinesi il termine è stato affibbiato allo stesso Lai, “impurità da eliminare” per “evitare la guerra”.
Il Gmd si è sempre difeso dalle accuse, sostenendo che il processo di revoca fosse frutto di un semplice calcolo politico, col Dpp intenzionato a ribaltare il risultato del voto del gennaio 2024. la retorica dell’opposizione taiwanese e del Partito comunista cinese è stata assonante, nel denunciare la cosiddetta “dittatura indipendentista” di Lai, attaccato anche per le sue recenti dichiarazioni in cui chiarisce ulteriormente la sua prospettiva sullo status di Taiwan, talvolta al di là del tradizionale perimetro formale della Repubblica di Cina – nome ufficiale con cui Taipei esercita la propria sovranità.
Per settimane, di fronte alle stazioni della metropolitana e agli incroci più importanti di ogni distretto di Taipei, si incontravano drappelli di volontari o membri del Dpp con giacchette viola e volantini che invitavano a votare “sì” alla revoca e “difendere la democrazia” contro le “interferenze cinesi”. Venerdì sera, invece, di fronte al palazzo presidenziale sono spuntate migliaia di bandierine con cielo blu, sole bianco e terra rossa della Repubblica di Cina. Era la manifestazione del Gmd, che fino a qualche settimana fa metteva in conto di perdere diversi parlamentari. Così non è stato: la maggior parte di chi era chiamato alle urne (in distretti prevalentemente inclini al Gmd) non ha percepito l’urgenza di rimuovere parlamentari eletti 18 mesi prima. “Questa farsa è finita. Il popolo ha scelto la stabilità e ritiene che il governo debba smettere di sprecare energie e risorse in lotte interne”, ha dichiarato Eric Chu, leader del Gmd. “Il risultato non è né una vittoria per una parte né una sconfitta per l’altra. Sia il sostegno che l’opposizione alla revoca sono diritti legittimi del popolo”, ha detto invece Lai, cercando di depoliticizzare la sconfitta. Allo stesso modo, il Gmd prova ad appropriarsi di una vittoria che in realtà è soprattutto una dimostrazione di pragmatismo dei taiwanesi.
Pechino presenterà il risultato come dimostrazione di un desiderio di riavvicinamento. Anzi, lo sto già facendo, in una serie di editoriali che sostengono che i taiwanesi avrebbero bocciato l’agenda “indipendentista” di Lai. Chen Binhua, portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino, ha dichiarato che le “manipolazioni politiche” di Lai “vanno contro la volontà del popolo”, mentre il Global Times parla persino di “fascistizzazione dell’indipendenza di Taiwan”, in riferimento alla presunta erosione dei diritti civili e la presa di mira dell’opposizione o dei cinesi continentali (qui un approfondimento di Npr sulla delicata questione dei documenti di residenza).
In realtà, il voto ha logiche prettamente interne. Non solo e non tanto per chi ha votato a favore della revoca, che crede alla linea “anticomuista” di promotori e Dpp, quanto per chi ha votato contro la revoca ma anche per chi ha deciso di non recarsi alle urne. Non pochi, visto che solo in 7 casi su 24 si è raggiunto il 25% di affluenza necessario a rendere valido il voto.
L’ho già scritto tantissime volte: la posizione dei taiwanesi in merito all’eventuale unificazione (o riunificazione, come la chiama Pechino) è già chiara, soprattutto dopo quanto accaduto a Hong Kong tra 2019 e 2020. Quel tema è stato effettivamente decisivo per la vittoria di Tsai Ing-wen alle presidenziali del 2020. Ma per un’ampia fetta della popolazione taiwanese, altamente sottorappresentata dai media internazionali, quel tema non è l’unico e nemmeno il più importante. Così è stato già alle presidenziali e legislative del 2024, così è stato anche stavolta.
A giocare contro la revoca sono stati due macrofattori. Primo: fare campagna per un voto di revoca di massa può sembrare più semplice e rumoroso, mettendo nel mirino l’opposizione nel suo insieme. Ma i voti di revoca si svolgono poi su base individuale, in distretti che hanno eletto quegli stessi rappresentanti appena 18 mesi fa. Per decidere di rimuoverli serve qualcosa di concreto e a livello individuale, come accaduto nel 2020 all’attuale presidente dello Yuan legislativo Han Kuo-yu quando era sindaco di Kaohsiung. Qualcosa che, evidentemente, in questo caso non c’era o non è stato percepito da abbastanza persone.
Secondo: al momento non è contendibile, su un piano maggioritario, la posizione politica sui rapporti con Pechino. Ancora una volta, va sottolineato però che resta ipoteticamente contendibile la posizione di garante dello status quo. Se un elettore taiwanese va a votare pensando ai rapporti con Pechino ha in mente due domande associate a rischi. La prima: “Non è che se vince il Dpp le tensioni si alzano troppo e si rischia un conflitto?”. La seconda: “Non è che se vince il Gmd ci avviciniamo troppo a Pechino e facciamo la fine di Hong Kong?”. Tradizionalmente, l’ordine di priorità era sulla prima domanda e il Dpp era spesso percepito come un’incognita maggiore.
Negli scorsi anni, Tsai era riuscita a ribaltare completamente questo scenario, sfruttando perfettamente quanto accaduto a Hong Kong. In che modo? Portando avanti la costruzione identitaria taiwanese, rafforzando l’alterità dalla Repubblica Popolare, convincere anche i sostenitori del Dpp che il tradizionale indipendentistimo (votato cioè a una dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan) non serviva perché Taiwan esercita già di fatto la sua sovranità all’interno del perimetro della Repubblica di Cina. Il tutto rispettando una serie di tradizionali limiti lessicali e formali che ne ha restituito un’immagine di garante della stabilità. Una posizione che ha di fatto reso il Gmd e la sua linea basata sul consenso del 1992 (qui per approfondire) più rischiosa e lontana dalla preservazione dello status quo.
Lai ha adottato una linea solo parzialmente di continuità, come scritto nella scorsa puntata sul suo primo anno di presidenza. Mirare agli stessi obiettivi di Lai ma con metodi più radicali rischia di cambiare nuovamente l’ordine delle due domande, e delle due priorità, di cui sopra. Non siamo ancora a quel punto, probabilmente, visto che il Gmd è ancora alla ricerca d’identità ed è a sua volta diviso all’interno tra una corrente “blu scuro” e dunque più aperta a discussioni su accordi di diverso tipo con Pechino (rappresentata dall’ex presidente Ma Ying-jeou) e una corrente “blu chiaro” che sta cercando invece di ridiscutere alcune posizioni tradizionali per ritrovare la vocazione maggioritaria, che resta fortissima sul fronte locale ma smarrita nelle tre ultime elezioni presidenziali.
Dove si è spinto troppo, almeno secondo un’ampia parte di elettorato che stavolta è rimasto silenzioso e che ha tradizionalmente sostenuto il Dpp, è su una lotta interna che da molti è stata percepita come un tentativo di tracciare una linea con un messaggio del tipo: “chi vuole difendere Taiwan e la sua democrazia sta con me/noi, chi è contro di noi non vuole difendere Taiwan”.
Un approccio che ha rafforzato divisioni già esistenti, come si può osservare sulla forte aggressività presente sui social in questi giorni. Ma che addirittura rischia di farne riaffiorare alcune dimenticate, come l’antica tensione intraetnica tra waishengren (i cinesi continentali arrivati a Taiwan dopo il 1945 e i loro discendenti) e benshengren, (nativi taiwanesi di etnia han). Una tensione in larga parte sopita con il processo di democratizzazione di Taiwan, che di recente è protagonista di qualche turbolenza.
Molti analisti invitano a una maggiore unità dopo il voto del 26, ma la possibilità che ci si arrocchi ulteriormente su posizioni contrapposte esiste. Ed è anzi assai probabile che nei prossimi mesi o anni si assista a nuovi scontri (talvolta anche fisici) allo Yuan legislativo, con l’azione del governo Lai ostruita. Non si può escludere che il Gmd, sopravvalutando l’esito delle urne, voglia provare a vendicarsi. Così come non si può escludere che il Dpp (dove non si escludono turbolenze tra le diverse fazioni) non punti ad aumentare la percezione del rischio esterno e l’urgenza di compattarsi intorno alla maggioranza. Il 23 agosto, tra l’altro, è in agenda un altro voto di revoca per altri 7 parlamentari del Gmd. Tsao ha già invitato il Dpp ad assumere una posizione più centrale nella campagna in vista delle ennesime urne.
Lai negli Usa ad agosto?
Tornando a Pechino, nonostante come detto la sconfitta delle revoche ha logiche prettamente interne, il risultato concede comunque a Xi Jinping uno spazio di manovra di recente in erosione: potrà predicare pazienza strategica all’interno, personalizzare su Lai la “questione” Taiwan sul piano internazionale, modulare la postura di fronte alle prossime turbolenze. Già nelle prossime settimane, Lai potrebbe effettuare un doppio transito negli Stati uniti (forse a New York e in Texas) nell’ambito di una visita in America latina. Sarà il primo da quando è in carica Donald Trump, nonché il primo sul territorio continentale degli Usa per Lai (che lo scorso dicembre era stato alle Hawaii e a Guam). Il Paraguay (uno dei 12 paesi ad avere relazioni diplomatiche ufficiali con Taipei) ha infatti annunciato che Lai sarà in visita ad Asuncion ad agosto. Lai dovrebbe fare un tour più ampio degli alleati dell’America Latina, passando anche quantomeno per il Belize. Nel 2023, quando Tsai fece un doppio transito negli Usa, la Cina reagì con ampie esercitazioni militari intorno a Taiwan.
Le Han Kuang 2025
Si sono svolte dal 9 al 18 luglio le esercitazioni militari annuali Han Kuang di Taiwan, che assumono proporzioni sempre più estese, nel tentativo di aumentare la consapevolezza dei rischi di un’invasione. Fin qui erano state quasi sempre soprattutto uno show realizzato nelle basi militari, ma ora hanno un impatto maggiore sulla vita reale dell’isola, con esercitazioni condotte anche in aeroporti civili, stazioni ferroviarie e della metropolitana, strade e autostrade. Durante le manovre sono stati mostrati diversi dispositivi militari americani, dai carri armati Abrams ai lanciarazzi Himars.
Le Han Kuang hanno due obiettivi politici, oltre che pratici. Primo: alzare la consapevolezza dei rischi nella cittadinanza taiwanese, un cambio di prospettiva e di comunicazione molto netto rispetto al passato. Secondo: segnalare agli Stati Uniti che si stanno “facendo i compiti a casa” e che si sarebbe pronti a difendersi. Forse quest’ultimo passaggio è prioritario, visto che in realtà che i test anti aerei si sono in ampia parte svolti nella stessa maniera degli scorsi anni: nessuna chiusura di massa né fuga organizzata nei bunker.
Nella strategia comunicativa di Taipei rientra anche la serie tv “Zero Day”, che per la prima volta descrive in un prodotto di fiction un’ipotetica invasione militare. In uscita il 2 agosto, ogni episodio esplora la risposta di Taiwan e la vita quotidiana durante il blocco, l’attacco e l’invasione. Della serie ho scritto, dopo l’uscita del primo teaser, mesi fa qui.
Tsmc accelera gli investimenti sui chip negli Usa
Da tempo preme Trump per portare la produzione di chip del colosso taiwanese negli Stati Uniti. Dopo l’annuncio (a marzo) di un maxi investimento da 100 miliardi di dollari per cinque nuovi stabilimenti, l’azienda ha deciso di accelerare di “diversi trimestri” la costruzione del suo secondo e terzo sito in Arizona. L’obiettivo è chiaro: garantire chip avanzati per i big della tecnologia americana come Apple, Nvidia e AMD, ingraziarsi l’amministrazione Trump e evitare i dazi sui semiconduttori taiwanesi, che potrebbero arrivare fino al 100%. Il tutto nonostante l’azienda sia consapevole che la redditività degli investimenti negli Usa sia tutta da verificare.
Pur di accelerare sul fronte americano, l’azienda sarebbe pronta a ritardare la costruzione di un secondo stabilimento in Giappone. Il primo sito giapponese ha iniziato a produrre chip lo scorso autunno per clienti come Toyota. La costruzione del secondo stabilimento era inizialmente prevista per l’inizio di quest’anno, nell’ambito di un piano di investimenti da 20 miliardi di dollari nel Paese che ha portato a oltre 8 miliardi di dollari di sostegno promesso dal governo giapponese. Il ritardo rischia di essere un duro colpo per il Giappone, la cui economia sta iniziando a risentire dei dazi del 25% imposti da Trump sulle importazioni di automobili e acciaio. Tokyo sperava di raggiungere un accordo commerciale con gli Stati Uniti, ma i negoziati si sono arenati e dal primo agosto rischiano di entrare in vigore dazi del 25% su tutti i prodotti giapponesi.
Ne ho scritto nel dettaglio qui.
Il 10 luglio, peraltro, il fondatore di TSMC Morris Chang ha compiuto 94 anni. Ho parlato di lui qui.
Si spegne l’ultimo reattore nucleare
Alle 10 di sera in punto del 18 maggio, a Taiwan si è chiusa l’epoca del nucleare. È in quel momento che i tecnici della Taiwan Power Company (Taipower) hanno disattivato definitivamente l’ultimo reattore nucleare ancora operativo dell’isola. Si tratta per l’esattezza del reattore numero 2 della centrale di Maanshan, nella contea meridionale di Pingtung. Da quel momento, Taiwan è diventata ufficialmente nuclear free, dopo oltre quattro decenni di utilizzo dell’energia atomica per la produzione di elettricità. Si apre ora una fase di grande incertezza e, secondo diversi esperti, di vulnerabilità. Già, perché Taiwan dipende quasi interamente dalle importazioni dall’estero per il suo mix energetico. E, come dimostrano le ripetute simulazioni di blocco navale da parte della Cina continentale, la questione energetica è legata in maniera indissolubile con la sicurezza.
Pechino e Taipei si sfidano sulla Storia
“La guerra antifascista è la base della sovranità cinese post-1945. La restituzione di Taiwan è una componente essenziale dell’ordine globale del dopoguerra”. Ma anche: “Taiwan era colonia giapponese, ma oggi non è un’eredità incompiuta della guerra, bensì una democrazia nata dagli stessi ideali del 1945”. La memoria della Seconda guerra mondiale, solitamente riservata alle commemorazioni storiche e accademiche, è diventata il campo di una nuova e significativa contesa politica tra la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Cina (Taiwan). A 80 anni esatti di distanza dalla fine del conflitto, Pechino e Taipei si sfidano sulle rispettive interpretazioni della storia, che confluiscono in divergenti idee di presente e di futuro.
Ciò che avviene oggi tra Pechino e Taipei non è solo una disputa politico-territoriale, ma una battaglia per il controllo della Storia. Entrambe le parti stanno cercando di ridefinire il significato e la proprietà della Seconda guerra mondiale per legittimare i propri ruoli nel presente. Per Pechino, lo scopo è legittimare le rivendicazioni su Taiwan come obbligo storico internazionale. Per Taipei, l’obiettivo è di ricollocarsi nel campo delle democrazie vincitrici e svincolarsi dall’eredità cinese. Il fatto che Taipei commemorasse per la prima volta la vittoria alleata in Europa, e non solo quella nel Pacifico, indica una svolta culturale e diplomatica: Taiwan non vuole più essere vista solo come erede del nazionalismo cinese anti-giapponese, ma come parte attiva dell’ordine democratico globale.
Nelle prossime settimane ci si attendono nuove scintille, con Pechino che ha invitato alle commemorazioni della vittoria contro il Giappone anche esponenti del Kuomintang (oggi all’opposizione a Taiwan) e veterani dell’esercito nazionalista. Lo stesso Kuomintang ha annunciato che promuoverà una serie di seminari per spiegare il ruolo giocato nella vittoria contro l’imperialismo nipponico, a dire del partito ben più centrale di quello dei comunisti di Mao. Nel frattempo, Lai proseguirà i suoi “discorsi alla nazione“, con funzionari taiwanesi invitati dal Giappone all’anniversario delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Ne ho scritto nel dettaglio qui.
Xi-Trump: cambio di angolazione
Dalla telefonata Xi-Trump di giugno: “Gli Stati Uniti dovrebbero “gestire la questione con prudenza, per evitare che un numero estremamente esiguo di elementi separatisti indipendentisti di Taiwan trascini la Cina e gli Stati Uniti in una pericolosa situazione di conflitto e scontro”. Rilevante il cambio di angolazione da cui Xi ribadisce la sua posizione su Taiwan, che segue la tendenza a “personalizzare” il problema su Lai e DPP (già osservato nella retorica usata durante le ultime esercitazioni dello scorso aprile) mettendoli dialetticamente in contrapposizione sia con la Cina sia con gli Usa.
Il Pentagono chiede chiarezza agli alleati
Il Pentagono ha chiesto a Giappone e Australia di chiarire quale sarebbe il loro ruolo se Stati Uniti e Cina entrassero in guerra per Taiwan. Secondo il Financial Times, il sottosegretario alla Difesa Usa, Elbridge Colby, avrebbe sollevato la questione durante recenti colloqui avuti con funzionari della difesa dei due Paesi. Una richiesta che ha colto di sorpresa sia Tokyo sia Canberra, che oggi pubblicamente chiarisce di non prendere alcun impegno preventivo. Lo scetticismo nasce anche dal fatto che gli Usa stessi non hanno mai chiarito un loro eventuale coinvolgimento e anzi, con Trump hanno sin qui nettamente abbassato il sostegno esplicito a Taipei. Una richiesta di impegno, secondo il Chosun Ilbo, sarebbe stata avanzata anche alla Corea del sud. Trump vuole aumentare le vendite di armi a Taiwan.
Altre notizie
I servizi segreti cechi sostengono che i diplomatici cinesi a Praga avrebbero pianificato un incidente inscenato durante la visita della vicepresidente taiwanese Hsiao Bi-khim nel 2024.
Il Dpp ha espulso 5 membri accusati di spionaggio a favore di Pechino. Si è arrivati a lambire anche l‘ufficio presidenziale.
Taiwan sta sottoponendo a controlli più di 747.000 funzionari pubblici, insegnanti e militari per verificare i loro documenti di identità e di residenza della Cina continentale.
L’ex presidente Ma Ying-jeou ha partecipato allo Straits Forum di Xiamen e ha paventato una ipotetica “riunificazione per mezzi politici“. Molti ne hanno scritto come di una “prima volta”, in realtà ne aveva parlato in una mia intervista del 2022 per Limes, in cui ipotizzava anche un potenziale futuro referendum.
Con l’aumentare delle tensioni tra Pechino e Taipei, iniziano a fioccare ricerche condotte da accademici della Cina continentale che studiano potenziali percorsi e modelli per governare l’isola. Altri esempi qui e qui. Victor Gao, vicepresidente del think tank Center for China and Globalization (CCG), ha suggerito in un’intervista del 4 luglio con il sito web di Shanghai Guancha che Taiwan inscenasse un “secondo incidente di Xi’an”, riferendosi al rapimento del leader nazionalista Chiang Kai-shek da parte dei suoi stessi generali nel 1936, con la richiesta di unirsi alle forze comuniste contro l’invasione giapponese. La rivisitazione contemporanea di Gao, riporta Lingua Sinica, prevederebbe il rapimento del presidente taiwanese Lai Ching-te al fine di accelerare la “riunificazione”. In particolare, descrivendo quello che era chiaramente uno scenario di colpo di Stato, Gao ha suggerito nell’intervista che qualcuno potrebbe “improvvisamente controllare Lai” prima di invitare il personale di sicurezza cinese a sbarcare a Taiwan.
Aspi analizza invece lo scenario di un potenziale blocco navale. Nuovo strumento di monitoraggio delle attività militari intorno a Taiwan.
Un uomo proveniente dalla Cina continentale sarebbe entrato illegalmente a Taiwan via mare e avrebbe trascorso più di un mese viaggiando liberamente per l’isola prima di consegnarsi alle autorità di immigrazione.
Cinque studentesse cinesi, che studiano a Macao e hanno visitato Taipei per andare a un concerto, hanno scattato una foto tenendo in mano la bandiera della Repubblica Popolare Cinese a maggio, poi l’hanno pubblicata sui social media. Il governo taiwanese ha successivamente avvertito che le loro future richieste di visto saranno “esaminate attentamente”. Ma, scrive Domino Theory, ci sarebbero cose più rilevanti di cui preoccuparsi di foto di bandiere.
Una giornalista della tv statale cinese si è riferita a Taiwan come a un paese separato durante una diretta.
Due analisi, qui e qui, su Taiwan e il nuovo Papa Leone XIV.
Abby Ya-Ping Lee, rappresentante di Taiwan in Israele, ha promesso una donazione di fondi a un progetto sanitario nei territori occupati della Cisgiordania, durante una visita al Consiglio regionale di Binyamin, che governa 48 comunità di coloni nella Cisgiordania occupata.
L’umanità sta scivolando in una progressiva disumanizzazione. Le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale erodono il libero arbitrio e favoriscono l’ascesa di autoritarismi digitali. Le democrazie sono in crisi d’identità e la riflessione su loro stesse è guidata da algoritmi che cancellano il diverso. Sono i temi fondanti di Intimità senza contatto, romanzo distopico della scrittrice taiwanese Lin Hsin-hui, pubblicato in italiano da add editore. Ma sembrano pericolosamente vicini alla nostra realtà. L’ho intervistata qui.
Di Lorenzo Lamperti
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.
