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Taiwan e l’incognita Trump

In Asia Orientale, Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

 L’incidente dello Studio Ovale tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky ha dato un ulteriore colpo alla fiducia di Taipei, che ha osservato con sgomento gli insulti e l’abbandono in diretta del presidente ucraino. Dopo anni in cui Taiwan ha costruito la sua posizione nel mondo allineandosi agli Stati Uniti e collegando direttamente la sua situazione con quella dell’Ucraina, improvvisamente tante sicurezze sono venute meno. E a Taipei c’è chi inizia a temere di poter fare la stessa fine, abbandonati dal partner più importante e irrinunciabile per la propria difesa.

Per noi è importante che gli Stati Uniti e il mondo democratico continuino a sostenere l’Ucraina. Con cambiamenti politici interni e pressioni economiche, alcune democrazie potrebbero avere dei ripensamenti o diventare più disposte al compromesso”. Era il 24 novembre scorso, quando Tsai Ing-wen pronunciava queste parole all’Halifax Forum in Canada. La ex presidente di Taiwan ha sottolineato più volte che per l’isola era fondamentale osservare il sostegno dell’Occidente a Kiev, come indiretto sostegno a un posizionamento globale che Taipei ha accentuato nel corso degli ultimi anni, in particolare dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022, spesso collegando la sicurezza dell’Ucraina (e dell’Europa) con quella di se stessa (e dell’Asia orientale).

Meno di quattro mesi dopo, è cambiato tutto. Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha prodotto una serie di eventi che inquietano Taipei, dove la già presente tensione politica si sta allargando sul piano sociale, con l’aumento dei dubbi sul proprio futuro e sul ruolo degli Stati Uniti. Nei quattro anni di amministrazione democratica, Joe Biden ha dichiarato quattro volte che Washington interverrebbe in difesa di Taiwan in caso di azione militare della Cina continentale. Le ricorrenti correzioni dello staff della Casa Bianca hanno fatto derubricare il tutto a “gaffe” e involontario chiarimento della storica “ambiguità strategica” americana.

In realtà, il messaggio era stato comunque recapitato, sia a Pechino come deterrente sia a Taipei come forma di rassicurazione. Di più. L’elemento più apprezzato dai funzionari taiwanesi della politica estera dell’ex presidente statunitense non riguardava nemmeno tanto il fronte bilaterale, quanto quello regionale. Già, perché Biden ha passato quattro anni a rafforzare il sistema di alleanze in Asia-Pacifico, che era stato messo a serio rischio dall’approccio transattivo di Donald Trump durante il suo primo mandato. L’amministrazione democratica è riuscita non solo a rilanciare le partnership di difesa con Paesi singoli come Giappone, Corea del Sud e Filippine, ma anche e soprattutto a integrarli in un’architettura di sicurezza regionale o minilaterale i cui riflessi si propagavano su Taiwan, anche solo geograficamente inserita in questa tela di rapporti.

Col ritorno di Trump, Taiwan sapeva di trovarsi di fronte a diverse incognite, ma c’erano anche dei precedenti rassicuranti. Il 2 dicembre 2016, poco dopo aver vinto le elezioni, il leader repubblicano parlò infatti al telefono con Tsai. Fu la prima, e finora unica, volta in cui un presidente eletto degli Stati Uniti ha parlato con una presidente della Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan) sin dal 1979, cioè dalla rottura dei rapporti diplomatici e l’avvio di quelli tra Washington e Pechino. Non solo. Poco prima di lasciare posto ad Antony Blinken, l’allora segretario di Stato Mike Pompeo eliminò le cosiddette “restrizioni autoimposte” nei contatti tra funzionari americani e taiwanesi. Favorendo di fatto la successiva e famigerata visita a Taipei dell’allora presidente della Camera, Nancy Pelosi.

Ma stavolta, ancora prima della vittoria alle urne di Trump contro Kamala Harris, Taiwan ha ricevuto quasi solo input negativi. Durante la campagna elettorale, Trump ha paragonato gli Usa a una “compagnia di assicurazioni” che, in cambio della tutela difensiva rispetto alle possibili mosse di Pechino, da Taipei “non riceve nulla”. E ancora: “Conosco la gente di Taiwan molto bene, la rispetto molto. Si sono presi circa il 100 per cento del nostro business dei chip”. Il riferimento è ai colossi taiwanesi dei semiconduttori, a partire dal colosso TSMC, che hanno in realtà costruito un sistema integrato di fabbricazione e assemblaggio che li rende indispensabili a tutto il mondo. Secondo quanto risulta a Gariwo, l’amministrazione del leader taiwanese Lai Ching-te non è praticamente mai riuscita ad avere scambi significativi col team Trump fino alla fine del 2024.

Non solo non si è ripetuta la telefonata del dicembre 2016, ma i primi mesi del Trump bis hanno inviato diversi segnali preoccupanti per Taipei. Intanto, sul fronte retorico. Le minacce di annessione della Groenlandia e del canale di Panama presentano diversi elementi problematici proprio in rapporto alla Cina. Per anni, il governo degli Stati Uniti ha esortato la Cina a mostrare “moderazione” nel portare avanti le sue rivendicazioni su Taiwan e a rinunciare alla coercizione militare per arrivare all’obiettivo della “riunificazione”.

Ma le minacce di Trump di usare la forza sulla Groenlandia e sul canale di Panama per perseguire i propri scopi legati alla sicurezza nazionale, ricordano da vicino le stesse scelte lessicali di Xi su Taiwan. Zhao Minghao, professore presso l’Istituto di studi internazionali dell’Università Fudan di Shanghai, sostiene che le parole di Trump potrebbero causare una rottura con le norme della diplomazia americana e creare un’apertura per la Cina. “Se la Groenlandia viene annessa dagli Stati Uniti, la Cina deve prendere Taiwan”, ha scritto Wang Jiangyu, professore di diritto alla City University di Hong Kong, sul social cinese Weibo. “Gli Stati Uniti giustificano la conquista con la forza di territori altrui per motivi di sicurezza nazionale, perché noi non dovremmo riprenderci Taiwan?”, si legge non così di rado sui social cinesi. Un messaggio che inizia a preoccupare anche Taipei.

Anche perché non è rimasto l’unico. L’incidente dello Studio Ovale con Volodymyr Zelensky ha dato un ulteriore colpo alla fiducia di Taipei, che ha osservato con sgomento gli insulti e l’abbandono in diretta del presidente ucraino. Dopo anni in cui Taiwan ha costruito la sua posizione nel mondo allineandosi agli Stati Uniti e collegando direttamente la sua situazione con quella dell’Ucraina, improvvisamente tante sicurezze sono venute meno. E a Taipei c’è chi inizia a temere di poter fare la stessa fine, abbandonati dal partner più importante e irrinunciabile per la propria difesa. Anche la forte retorica appoggiata dal governo taiwanese dei “like-minded partner”, delle “catene di approvvigionamento democratiche” e dell’isola “baluardo della democrazia asiatica” sembrano improvvisamente essersi svuotate. Non bastano le parole di alcuni componenti dell’amministrazione Trump, secondo cui il disgelo con la Russia dovrebbe, nei piani, servire a concentrarsi maggiormente sull’Asia-Pacifico.

Anche perché, nel frattempo, l’architettura di sicurezza regionale è tornata in discussione a causa di una serie di crisi politiche che sta colpendo in modo diverso ma simultaneo Corea del Sud, Giappone e Filippine. Ad aggiungere un’ulteriore preoccupazione, la minaccia di Trump di colpire i chip taiwanesi con dazi fino al cento per cento, col tentativo di forzare parte della produzione fuori dall’isola e su territorio statunitense. Risultato ottenuto. Solo pochi giorni dopo aver visto Trump insultare Zelensky, i taiwanesi hanno osservato C.C. Wei, amministratore delegato del gigante TSMC, annunciare insieme al presidente statunitense almeno 100 miliardi di dollari di investimenti negli Usa. “I chip di intelligenza artificiale più potenti al mondo verranno fatti qui in America”, commenta trionfante Trump.

Da allora, a Taipei, non si parla quasi più d’altro. E per lo più con timore. L’industria dei chip è da sempre considerata una garanzia di sicurezza, per Taiwan. Le aziende locali controllano circa il 60% della quota globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio. TSMC da sola supera il 50% e addirittura il 90% dei chip più avanzati. I chip taiwanesi sono fondamentali sia per gli Stati Uniti che per la Cina. E sono alla base del funzionamento di qualsiasi dispositivo elettronico, dagli smartphone alle applicazioni militari. TSMC ha deciso di spostare parte della produzione negli Usa, nonostante i seri dubbi sulla profittabilità.

La speranza non è solo di evitare i dazi, ma anche (sostengono i maligni) di crearsi un piano alternativo e piantare radici al di fuori dell’isola per attutire i rischi geopolitici. “Con questo accordo rafforziamo i rapporti con gli Stati Uniti e l’importanza di Taiwan nel mondo”, ha provato a rassicurare Lai. “La gran parte della produzione resterà a Taiwan”, dice TSMC. L’opposizione invece attacca: “Stiamo svendendo il nostro scudo di silicio come tassa di protezione”. Persino tanti sostenitori del governo sono preoccupati, anche perché la sensazione è che Trump punti anche al trasferimento tecnologico a favore di Intel. “Quando non avranno più bisogno di noi ci abbandoneranno alla Cina”, scrivono sui social molti taiwanesi, che assistono con sgomento all’avvicinamento tra gli Stati Uniti e la Russia. Per provare a evitarlo, Taipei punta ad acquistare un maxi pacchetto di armi per ammansire ulteriormente Trump e a portare le spese di difesa al 3% del pil. Ma dal Pentagono si chiede di arrivare al 10%. Un’impresa impossibile.

A marzo, Lai ha provato a cambiare focus, annunciando un piano in 17 punti volto a contrastare “interferenze e infiltrazioni” della Cina continentale, definita una “forza straniera ostile”. Una mossa che arriva dopo recenti, e ripetuti, casi di spionaggio all’interno delle forze armate. Lai propone di reinsediare i tribunali militari, aboliti oltre un decennio fa proprio su spinta del suo Partito progressista democratico (DPP) per cancellare una delle tante macchie dell’era del terrore bianco di Chiang Kai-shek. Un’idea che potrebbe dividere i taiwanesi che, già preoccupati per le mosse di Trump e di Pechino, si trovano ancora una volta a dover ricalibrare il loro ruolo nel mondo.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su Gariwo]