Ai Weiwei, artista e attivista cinese noto in tutto il mondo, il 3 aprile doveva imbarcarsi per Hong Kong. Giunto all’aeroporto di Pechino è stato preso in consegna da alcuni funzionari della polizia, mentre in contemporanea il suo ufficio veniva perquisito, i suoi assistenti messi in stato di fermo, un suo noto collaboratore Wen Tao, arrestato, la moglie interrogata.
Da allora di Ai Weiwei non si sa più nulla, mentre la macchina della giustizia cinese provvede a cercare prove di un presunto reato economico collegato al suo studio a Shanghai e infangarne il nome per presunta diffusione di materiale pornografico, come annunciato ieri da un quotidiano di Hong Kong, il Wen Wei Po, noto per le sue posizioni filo pechinesi. Insieme alle azioni giudiziarie la Cina ha messo in piedi il consueto armamentario di censura: sparito il nome di Ai Weiwei dai siti e microblog cinesi, nessuna notizia circa lo stato delle indagini neanche durante le consuete riunioni tra giornalisti stranieri e portavoce del governo.
Per Ai Weiwei sono arrivate manifestazioni di solidarietà dal mondo dell’arte internazionale, la Tate Modern, dove aveva esposto, il Guggheneim, artisti singoli, anche cinesi, sparsi in tutto il mondo. Anche il web cinese, nella sua costante lotta contro la censura, ha manifestato solidarietà usando al solito le scappatoie del linguaggio, attraverso i caratteri che suonano come Ai Weilai e che significano “amo il futuro”. Ai Weiwei è l’ultimo arresto sulla scia di un periodo di repressione in Cina, dalla non facile interpretazione in termini politici: in meno di due mesi sono centinaia gli intellettuali, attivisti, artisti, avvocati dei diritti umani messi in carcere, in stato di fermo, ai domiciliari, impediti a lasciare il paese, scomparsi. Un’attività preventiva la cui traiettoria parte dal post assegnazione del premio Nobel a Liu Xiaobo, ed è proseguita con maggiore lena in occasione delle rivoluzioni del gelsomino in Cina.
A inizio febbraio su un sito internet sino statunitense, boxun.com, erano apparsi gli inviti a manifestare ogni domenica contro la corruzione e per riforme democratiche in Cina in trenta città, armati di un gelsomino, simbolo di continuità con le rivolte del mediterraneo. Una protesta più virtuale che reale: poche le persone per strada, ingente lo schieramento delle forze dell’ordine in ogni città. Da quel momento è partita una violenta campagna di arresti, con accuse di sovversione a blogger o attivisti rei anche solo di avere twittato l’appello della protesta. Proprio alcuni giorni fa è arrivata la prima condanna per un ragazzo di 21 anni arrestato durante le proteste: due anni di campo di lavoro, mentre ieri un’altra persona è stata fermata perché coinvolta nell’organizzazione delle presunte rivolte.
Di fronte a una tale ondata di arresti, si registra una intraprendenza sempre più spinta da parte degli apparati di sicurezza locali, a testimonianza di come il passaggio politico previsto nel 2012, con il cambio di leadership, stia forse lasciando la politica cinese in un vuoto di potere nel quale sono già partite le consuete schermaglie all’interno del Partito Comunista, per decidere i futuri assetti. Dopo le velate parole circa aperture e riforme del premier Wen Jiabao, questi ultimi arresti sembrerebbero confermare una resistenza determinata nel mondo politico cinese a cambiamenti, oppure costituire un’azione preventiva per tappare bocche critiche di fronte a un possibile problema economico dovuto all’inflazione galoppante.
Di sicuro in questo momento nel paese sembra mancare una voce rigorosa, come poteva essere quella di Deng Xiaoping o Jiang Zemin, in grado di imporsi sul resto del partito, indirizzando la politica cinese in una direzione ben precisa. L’impressione, ad ora, è che diverse forze stiano mettendo in campo la propria visione del futuro cinese: a farne le spese la minoranza che da sempre spinge per riforme politiche e che costituisce l’anima più critica della locomotiva cinese.
[Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano]