Con Startup India, il governo ha stanziato un fondo di sostegno alle startup locali di 1,5 miliardi di dollari, esenzione fiscale per tre anni, autocertificazioni di rispetto delle leggi sul lavoro e sull’ambiente, realizzazione di scuole, centri di ricerca, laboratori (a migliaia) in tutto il paese, «festival delle startup» nazionali per presentare le nuove imprese ai potenziali investitori.«Considero le startup, la tecnologia e l’innovazione strumenti entusiasmanti ed efficaci per la trasformazione dell’India», parola del primo ministro Narendra Modi. Così si legge a pagina due del pamphlet di presentazione di Startup India, la campagna governativa di stimolo alle nuove imprese varata in pompa magna dal governo Modi lo scorso 16 gennaio.
Assieme a Swacch Bharat («India pulita») e a Make in India, Startup India completa il trittico della «vision» modiana per l’India del domani: un paese, come si dice da queste parti, «vibrante», giovane, pulito, ipertecnologico e iperconnesso, competitivo. Un paese che, basta affacciarsi a qualsiasi finestra del subcontinente indiano, ancora non esiste nella realtà ma, ed è la grande scommessa di Modi e dell’India, forse già sta prendendo forma nei cervelli creativi di migliaia di giovani indiani, magari formati nei campus d’eccellenza degli Indian Institute of Technology (Iit, altra intuizione visionaria, risalente al 1956, di un primo ministro indiano di ben altra caratura: Jawaharlal Nehru).
La teoria è molto semplice: le menti indiane, negli ultimi decenni, hanno contribuito enormemente allo sviluppo tecnologico e informatico del pianeta, travasando un pedigree di predisposizione ancestrale alla conoscenza – presunto, ma qui in India ampiamente sbandierato – e rigorosa formazione accademica nelle incubatrici d’innovazione della Silycon Valley. L’ultimo esempio, in ordine cronologico, risponde al nome di Sundar Pichai: nato a Madurai nel 1972, ha studiato in India fino al conseguimento della laurea breve all’Iit di Kharagpur, per poi emigrare negli Usa.
Oggi, a 44 anni, è il Ceo di una vecchia startup chiamata Google, dove ha lavorato dal 2004.
L’obiettivo dell’India è intercettare le menti alla Pichai prima che siano costrette ad emigrare, creando un ambiente il più favorevole possibile alla nascita di start up «indiane»: ideate, progettate, realizzate, sostenute, sovvenzionate in India.
Con Startup India, il governo ha stanziato un fondo di sostegno alle startup locali di 1,5 miliardi di dollari, esenzione fiscale per tre anni, autocertificazioni di rispetto delle leggi sul lavoro e sull’ambiente, realizzazione di scuole, centri di ricerca, laboratori (a migliaia) in tutto il paese, «festival delle startup» nazionali per presentare le nuove imprese ai potenziali investitori.
La campagna si sovrappone a una frenesia da startup che ha investito il subcontinente, più prolifico che mai nella realizzazione di nuove compagnie: da metà 2014 a metà 2016, riporta una ricerca pubblicata dal magazine online Quartz, in India sono nate 2281 startup, terzo paese al mondo dopo Usa e Regno Unito. Ma di queste, altro lato della medaglia, il 40 per cento ha già chiuso i battenti.
Il mix di cause ha a che vedere con una serie di problemi sistemici che fanno del mercato indiano delle startup un settore estremamente volatile e rischioso, dove milioni di dollari vengono investiti e persi in manciate di mesi.
La prima, e sembrerà un ossimoro, è la mancanza di innovazione. Alle startup indiane si imputa la sindrome del replicante: si prende un concetto già «vecchio», lo si ripropone con poco o proprio nessun valore aggiunto, si sgomita nel mercato locale per un posto al sole e o si finisce sul lastrico o, se va bene, si viene assorbiti. Basti pensare al settore dell’e-commerce, con startup come Flipkart, Snapdeal, Myntra impegnate in una guerra fratricida per consolidare la propria posizione di mercato minacciata da giganti come Amazon e Alibaba (cinese), che offrono lo stesso identico servizio. O a Olacabs, la risposta indiana – e identica – al fenomeno Uber.
Dalla mancanza di diversificazione e inventiva deriva la poca fiducia degli investitori, disposti a mettere somme ingenti all’inizio dell’avventura imprenditoriale, ma ancora più propensi a tirare in remi in barca al primo scossone, spostandosi su altre startup temporaneamente più promettenti. La maggior parte delle startup prematuramente mancate all’affetto dei propri impiegati, sempre secondo Quartz, chiude entro 12 mesi dall’inizio delle attività, lasciando senza lavoro da un giorno all’altro centinaia di giovani.
L’Economic Times (Et), in un articolo dedicato ai licenziamenti di massa delle startup defunte, racconta di manager e tecnici tutti sotto i trent’anni impegnati a saltare da una startup all’altra in cerca di stipendi sempre più alti, fino a schiantarsi contro il muro di una concorrenza molto agguerrita che porta alla disoccupazione.
Lakshminath, ad esempio, ha raccontato all’Et la propria storia lavorativa degli ultimi anni: assunto in una business startup nel 2014 a 25 lakh all’anno (37mila dollari), nel giro di un anno, cambiando tre posti di lavoro, è arrivato a uno stipendio annuale di 70 lakh (104mila dollari). Fino a quando la giovane startup che lo aveva assunto a una cifra assolutamente fuori mercato non l’ha scaricato con un mese di preavviso: tagli al personale dovuti a un progetto di crescita della società – «scale up» – fallito, gli investitori hanno ritirato i fondi.
Dopo 9 mesi alla ricerca di un impiego in linea con le proprie competenze e disposto a dimezzare il proprio compenso, Lakshminath a settembre 2016 era ancora disoccupato: «collateral damage» di una guerra per l’Idea del Futuro che, in India, ancora non si vede all’orizzonte.
[Pubblicato su il manifesto]