L’11 marzo del 2011 un terremoto di magnitudo 9.0 colpiva il Nordest del Giappone, scatenando un potente tsunami alto fino a quaranta metri. Quasi 16mila persone persero la vita trascinate via dall’onda anomala. Oltre 2500 persone ancora oggi risultano disperse. Un punto a cinque anni dal «triplo disastro», tra le politiche del governo e le richieste delle comunità locali. Nel nostro speciale:
A Nuclear Story di Pio d’Emilia
La versione di Kan di Andrea Pira
L’impatto politico e sociale del 3.11 di Marco Zappa
Per centinaia di giapponesi l’11 marzo 2011 non è ancora finito. A cinque anni di distanza dal più grande disastro che il Giappone abbia vissuto dal dopoguerra, c’è ancora chi spera di ritrovare un genitore, una moglie, un figlio, un amico.
L’11 marzo del 2011 un terremoto di magnitudo 9.0 colpiva il Nordest del Giappone, scatenando un potente tsunami alto fino a quaranta metri. Quasi 16mila persone persero la vita mentre l’onda anomala trascinava via centinaia di migliaia di edifici e automobili.
Dopo una petizione popolare che ha raccolto decine di migliaia di firme, a Rikuzentakata, una delle località più colpite dallo tsunami i sommozzatori della guardia costiera giapponese sono tornati a immergersi nelle acque del Pacifico per trovare tracce di chi da cinque anni non si trova più
Qualcuno teme che i resti dei propri cari siano ancora sulla costa.
La «Grande muraglia» anti-tsunami
Ma oggi parte di questi terreni sono stati reclamati dallo stato per costruire una catena di barriere anti-tsunami alte fino a 12,5 metri e lunga 400 chilometri lungo la costa del Tohoku, la regione del Nordest dello Honshu, l’isola principale del Giappone.
Anche se il progetto è nelle sue fasi iniziali, qualcuno l’ha già soprannominato «la Grande muraglia del Giappone». Il costo totale del progetto? circa 7 miliardi di dollari. L’efficacia in caso di grande tsunami? Non testata.
Intanto, le zone costiere sono spopolate. Chi è sopravvissuto alla grande onda del 2011 oggi vive lontano dal mare, verso le zone collinari. Qualcun altro ha abbandonato la propria provincia per stabilirsi a Tokyo.
Sono circa 160mila le persone che hanno dovuto abbandonare la propria abitazione all’indomani dell’11 marzo 2011, 100mila coloro che ancora oggi vivono in stato di evacuazione in alloggi temporanei o in case popolari.
La principale industria locale, la pesca, è ormai fortemente ridimensionata rispetto al 2011. Una conseguenza dello spopolamento dell’area e dell’inquinamento ambientale causato dalla vicina centrale nucleare di Fukushima Daiichi.
Fukushima: la soluzione è lontana
Fu proprio l’onda anomala a scatenare una reazione a catena che ha portato al meltdown di tre reattori. A distanza di cinque anni, il governo giapponese e la società che gestice l’impianto, Tokyo Electric Company (Tepco), sono lontani dal trovare una soluzione al disastro di Fukushima.
Il problema più pressante che oggi l’utility energetica si trova ad affrontare sono le oltre 700mila tonnellate di acqua radioattiva usata per raffreddare i reattori danneggiati e stoccata nell’area dell’impianto.
Tepco dice che nuove fuoriuscite nel terreno, e quindi in mare, sono inevitabili. Ma si impegna a risolvere il problema entro il 2020. Per fermare il flusso di acqua contaminata verso l’oceano, l’azienda ha progettato anche un «muro di ghiaccio sotterraneo», il cui funzionamento rimane ancora oggi un’incognita.
Ci vorranno forse trenta, forse quarant’anni, forse addirittura un secolo, per bonificare la centrale nucleare e i dintorni.
Evacuati, tornate a casa!
Intanto però Tokyo — forte delle statistiche rassicuranti sulla sicurezza di aria e di cibo di molte località nella provincia di Fukushima — ha invitato i «rifugiati nucleari» a tornare alle loro vecchie case.
Entro il 2017, il governo punta a far rincasare il 70 per cento dei 100mila evacuati del 2011. Ma molti di loro sono scettici sulle rassicurazioni della politica.
Non è solo la paura di nuove fuoriuscite di sostanze radioattive. Sono forse i milioni di metri cubi di rifiuti radioattivi stoccati sul territorio della prefettura di Fukushima a preocupare di più.
Secondo il quotidiano locale Kahoku Shimpo, sono già 10milioni e la previsione del Ministero dell’Ambiente è di arrivare a 22 milioni alla fine delle operazioni di decontaminazione.
Su queste, le ultime stime parlano di un costo pari a 110 miliardi di euro, la maggior parte in indennizzi alla popolazione e alle aziende che hanno subito danni a causa del disastro naturale. Un calcolo solo parziale, soprattutto perché i lavori di bonifica dei terreni e dello stesso impianto Daiichi sono ancora a uno stato iniziale.
Bonifica inquinata
Sui lavori pesa poi un’altra ombra. Quella della carenza di personale e dei pochi controlli sulla fornitura di manodopera alle aziende subappaltatrici. Il governo stesso ha rilevato in un recente studio che molte di esse violano le leggi sull’impiego.
Migliaia di lavoratori sono impiegati a tempo determinati e sottoposti a turni di lavoro massacranti in condizioni precarie. In certi casi provengono da classi sociali emarginate e finiscono per affidarsi ai cacciatori di teste della yakuza, la mafia giapponese. Alcuni sono morti senza nome, senza qualcuno che potesse riconoscerli, senza lasciare traccia.
Oggi, all’ingresso di Futaba, uno dei villaggi fantasma nei dintorni del sito di Fukushima Daiichi, la scritta pronucleare «Genshiryoku—Akarui Mirai no Energy», (Nucleare — L’energia per un futuro più luminoso), diventata il simbolo dell’incidente nucleare di Fukushima non c’è più. Contro la loro rimozione ha protestato un gruppo di cittadini: «Il passato non si cancella».
A Tokyo, nei palazzi della politica e delle grandi aziende che nel nucleare negli ultimi decenni hanno investito e perso miliardi di yen, c’è chi in quell’idea ci crede, oggi più che mai. Bisogna solo cambiare lo slogan.
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