In un diario di trenta capitoli, quanti i giorni trascorsi al «fronte», Pio d’Emilia, corrispondente da Tokyo per Sky Tg24 e storico collaboratore de il Manifesto, nel 2011 aveva raccontato i trenta giorni che hanno sconvolto il destino di una nazione e modificato l’assetto economico mondiale. La sua cronaca oggi, a cinque anni da quei giorni, è diventata un documentario: «Fukushima: A Nuclear Story». Una ricerca lunga quattro anni in cui d’Emilia raccoglie più di 300 ore di materiale girato tra immagini dai luoghi del disastro e interviste agli abitanti delle zone colpite, alle autorità locali e governative. Nel quinto anniversario del «triplo disastro» presentiamo il trailer del film e riproponiamo un brano de Lo Tsunami Nucleare (Manifestolibri, 2011).
Per sconfiggere per sempre il nucleare, «dimissionandolo» dove è in funzione ed evitando di istituirlo dove non c’è, basterebbe puntare sull’informazione corretta (sia in tempo di pace, nelle scuole, sui media, nei dibattiti istituzionali) sia e soprattutto in tempi di «emergenza». Denunciandone, puntualmente e correttamente, incongruenze, rischi e costi (non sono finanziari, ovviamente) e lasciando alla gente, laddove la gente può, tutto sommato, decidere (in Giappone no, visto che non esiste l’istituto del referendum).
L’esempio di Fukushima, più ancora che in occasione di Three Miles Island e Chernobyl penso sia davvero…esemplare. E se, come sembra accadrà, terrà i poveri giapponesi ed il mondo intero con il fiato sospeso per ancora molti mesi, se non anni, darà un contributo probabilmente detereminante, se non decisivo alla fine del nucleare non solo in Giappone, ma nel mondo intero. Più che la catastrofe realizzata (come Chernobyl, che pian piano avevamo dimenticato) può infatti la catastrofe annunciata e incombente. L’incubo di quello che può succedere deve convincerci tutti della pericolosità di questa malaugurata “scelta”. […]
Come si fa a tenere milioni di persone, migliaia di ettari, miliardi di investimenti sotto il costante rischio di una catastrofe nucleare? E questa insicurezza, questo incubo che, da solo, dovrebbe, empiricamente, convincerci tutti, senza bisogno di ricorrere allo scontro ideologico, di dire addio al nucleare. Il complesso di Fukushima (formato da 2 centrali, per un totale di 10 reattori) è infatti uno dei maggiori impianti nucleari al mondo, costruito oltre 40 anni fa, a costi e prebende proibitivi, per l’epoca, dalla General Electric, ed era considerato, sino all’11 marzo e nonostante la sua vetustà, tra i più sicuri.
Il suo «decommissionamento» era previsto per il maggio 2012, fra un anno esatto (di qui il il già accennato, malcelato interesse dei francesi, che da tempo cercano di “entrare” sul mercato giapponese, considerato sino a qualche mese fa tra i più promettenti). E fin dai primi giorni tutti i maggiori esperti nucleari, locali ed internazionali, concordano su un paio di punti: che la situazione a Fukushima era e resta grave ma non «catastrofica» e che, anche immaginando lo scenario peggiore (esplosione e fusione totale di tutti i reattori, completamente diversi per forma, sostanza ed architettura da quello di Chernobyl) i danni, pur gravissimi, interesserebbero solo una zona, più o meno estesa, limitrofa alla centrale.
Magari non solo i 20 chilometri, magari il doppio, il triplo. Magari dieci volte tanto. Ma che Tokyo, e i suoi venti milioni di abitanti possano essere in qualche modo a rischio non l’ha immaginato, né l’immagina, nessuno. Ma basta e avanza, mi sembra. Mettere nel conto che di punto in bianco centinaia di migliaia di persone, forse più di un milione debbano abbandonare per sempre la loro zona di residenza, inventandosi una nuova vita non basta per chiudere definitivamente con il nucleare?
Forse, ora che la lobby nucleare non ha più tanti soldi da sperperare, il suo potere contrattuale sui grandi media e network si allenterà, e chissà che anche su testate come l’Asahi o lo Yomiuri, sinora decisamente allineati, affiorerano voci diverse e magari critiche. Non me ne stupirei.
L’aver puntato sul nucleare è, alla fine, il vero peso, il vero saldo negativo con cui il Giappone va ad affrontare la ricostruzione. La difficoltà di reperire, e garantire sufficiente e stabile fornitura di energia è il motivo per il quale, già da ora, le grandi industrie, dalla Toyota alla Sony, dalla Honda alla Panasonic stanno decidendo di abbandonare il Tohoku al suo destino, accelerando quella delocalizzazione che, per un motivo o per l’altro, le aziende giapponesi avevano rimandato.
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