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Spartiti rossi – Rock è rivoluzione

In Cina, Cultura, Spartiti Rossi by Redazione

“Rock è rivoluzione” di Stefano Capolongo (maggio 2025, 19,95 euro) è un viaggio appassionato attraverso la nascita e l’evoluzione del rock cinese (yaogun), un movimento culturale che ha cambiato per sempre l’immaginario di intere generazioni. Dalla Cina degli anni ’70, sospesa tra fedeltà alla tradizione e ricerca di modernizzazione, fino al boom creativo degli anni ’90 e all’arrivo di internet, il rock ha attraversato confini e abbattuto barriere, diventando voce di dissenso e alternativa allo status quo, senza mai diventare mainstream. Tra racconti personali, interviste, testi tradotti, fotografie e curiosità sorprendenti, l’autore intreccia storia e passione, offrendo uno sguardo unico su una Cina sconosciuta e irripetibile. China Files propone un estratto del volume per gentile concessione di Orientalia Editrice. 

A chiunque sia capitato di interessarsi a un genere musicale contemporaneo non occidentale, esclusi i generi “colti” come la musica classica, sarà probabilmente successo di imbattersi in commenti scettici o denigratori. Nella mia esperienza personale, da sinologo appassionato e assiduo ascoltatore di musica cinese, ne ho sentite di tutti i tipi: “Ma in Cina hanno pure la musica? Saranno tutte lagne come quelle che si sentono nei ristoranti cinesi! E poi il rock, figurati se sanno cos’è. Come fanno con la censura? In Cina ascoltano solo pop, K-Pop. E come mai non ci sono gruppi cinesi famosi come i Coldplay?”. Sebbene queste domande, nella maggior parte dei casi, sembrino provenire dallo zio che vedi solo a Natale e che inizia a straparlare dopo il quinto bicchiere di Frascati (per i non romani vale qualsiasi vino economico e da bevuta allegra della vostra zona), meritano comunque una risposta, capace di ridurre la distanza siderale dalla realtà.

Le mie reazioni a questo genere di affermazioni sono passate attraverso tre fasi distinte.

La prima fase mi vedeva allineato con chi sollevava tali dubbi. Ero infatti uno scettico ventenne che si iscriveva a studiare cinese all’università con lo zaino Eastpak ricoperto di toppe dei The Who, The Cure, Depeche Mode, e consideravo la Gran Bretagna l’unico e sacro centro della musica. Che sciocchezza! La mia era una chiusura mentale verso qualsiasi altra tradizione musicale, che per me non avrebbe mai potuto eguagliare album come The dark side of the moon. Questo atteggiamento era sostenuto anche da un sistema didattico che all’epoca non lasciava spazio per discutere della musica cinese. Nei rari casi in cui veniva affrontata, era strumentalizzata per fini linguistici e di insegnamento, nobili senza dubbio, ma del tutto scollegata dal contesto culturale.

La seconda fase è stata quella del dubbio e della curiosità. Nel 2013 mi trovavo a Shanghai, città fervente per la musica indipendente, in particolare quella elettronica. Andai al live degli svedesi The Mary Onettes allo Yuyintang, un locale storico in cui si mescolano i mille volti e le mille geografie della città. Qualche settimana dopo si sarebbe esibito uno dei miei artisti preferiti, il canadese Mac DeMarco. Ad aprire il concerto degli svedesi furono i Running Blue, una band locale che proponeva un post-rock classico, influenzato da gruppi come i Wang Wen, ma arricchito da esperienze diverse, soprattutto trip-hop e dub. La loro esibizione fece scattare un clic, inserendosi in un processo già iniziato nella mia testa, che mi agganciò alla produzione musicale autoctona cinese, in particolare quella elettronica e shoegaze. Quella musica raccontava una storia che noi occidentali conosciamo pochissimo, ma che era incredibilmente profonda. Se in quel periodo mi avessero posto le stesse domande di cui sopra, avrei risposto più o meno così: “Ascolta qualcosa, poi ne riparliamo”.

La terza fase è quella in cui mi trovo ora, mentre scrivo questo libro. Oggi credo che valga la pena raccontare questa storia. Viviamo un momento storico ambiguo in cui la Cina è sempre più presente nelle nostre vite, ma, a causa dell’enorme polarizzazione geopolitica, resta comunque culturalmente lontana. La musica cinese sta lentamente iniziando a entrare nelle nostre playlist, negli articoli di fine anno di importanti testate musicali angloamericane (come Pitchfork e Variety) e nelle newsletter di giornalisti occidentali (Mando Gap e Concrete Avalanche, tra le altre). Stiamo iniziando a conoscere artisti estremamente popolari in lingua cinese, grazie anche all’ascesa di Taiwan come centro artistico-musicale, provenienti dal mondo del C-Pop, dell’hip-hop o della trap (Higher Brothers, Exo-M, Li Ronghao). Tuttavia, poco o nulla si sa di una storia che è patrimonio di qualsiasi artista cinese: quella del rock.

Dalla fine degli anni ‘70, con il declino del maoismo, fino ai primi anni Duemila, il rock cinese è nato, si è sviluppato come sottocultura ed è scomparso, almeno nella sua forma iniziale, dando vita a decine di sottogeneri che ancora oggi popolano il vasto mercato musicale nazionale.
Ecco, forse proprio quelle domande, all’apparenza superficiali, mi hanno spinto a trovare una risposta. Oggi, quella risposta sarebbe meno piccata e suonerebbe più o meno così: “Lo sapevi che in piazza Tian’anmen, nel 1989, si suonò musica rock? E che una canzone fu censurata da ben tre governi per oltre sessant’anni? O che nel 1994, a Hong Kong, più di diecimila spettatori parteciparono a un concerto rock con band provenienti anche dalla Cina continentale?”. Sì, tutto questo è il rock cinese. Alimentato dal desiderio irrefrenabile di scoperta, ha affrontato mille difficoltà e porte chiuse, trasformandosi in breve tempo in un’utopia non realizzata, ma capace comunque di conquistare spazi, giorno dopo giorno. Una storia che merita di essere raccontata.

Con l’aiuto dei pochi studiosi che hanno affrontato l’argomento in modo accademico, ci accingiamo a intraprendere un viaggio tutt’altro che scolastico, fatto di immagini, testi, copertine e curiosità, attraverso i vent’anni che hanno radicalmente cambiato la concezione della musica popolare in Cina.

Quindi, che siate studenti di cinese, semplici appassionati di musica, entrambe le cose o, ancora meglio, nessuna delle due, questo libro è per voi.

Di Stefano Capolongo