Sinosfere – (Auto)narrazioni in Cina ai tempi del coronavirus

In Cina, Cultura, Sinosfere by Redazione

I poeti della quarantena

In premessa è opportuno esaminare ciò che si muove nel mondo poetico “alto”. Shikan, la più prestigiosa rivista di poesia in Cina, sin da fine gennaio, con una prima raccolta dal titolo Poesia contro il virus! I poeti di Wuhan durante l’isolamento (Yi shi kang yi! Wuhan shiren zai fengcheng qijian 以诗抗疫!武汉诗人在封城期间), da mesi pubblica online componimenti avente per tema la lotta al coronavirus, scritti da poeti di Wuhan, o in qualche modo impegnati nella battaglia all’epidemia, ma non solo. Alcuni di questi contributi, insieme ad altri sullo stesso tema, sono stati poi stampati sul numero di marzo della rivista. Il 10 marzo l’Associazione degli scrittori cinesi ha organizzato un reading di “opere letterarie”, principalmente poesie, dal tema “Sulla stessa barca: cuori uniti contro l’epidemia” (Tongchuan gongji tongxin zhan “yi” 同船共济 同心战 “疫”).

Un fenomeno simile era avvenuto nel 2003 con la poesia sulla SARS. Non diversamente da allora, anche oggi si scorge in questi versi, se non direttamente la longa manus del Dipartimento centrale di propaganda, quantomeno una forte influenza del discorso statale. Lo Stato, spiega Gallelli, ha messo in atto una strategia discorsivo-propagandistica che presenta la lotta all’epidemia come una guerra di popolo (rispolverando terminologie della Cina rivoluzionaria), con i medici “guerrieri” in prima linea e ogni comune cittadino nelle retrovie, contro un nemico invisibile e demoniaco la cui venuta è paragonata a una calamità naturale. Può essere considerata esemplificativa in questo senso la poesia seguente, a firma di Liu Yishan 刘益善, rinomato poeta dello Hubei, la provincia dove si trova Wuhan (già vicepresidente della sezione provinciale dell’Associazione degli scrittori):

mentre il nuovo coronavirus ammantato di nero
sferra contro di noi il suo attacco a sorpresa
poeti, cosa dobbiamo fare?
cosa possiamo fare?

per chi è stato colpito
pregare, e augurar loro
di resistere con tutte le forze, di rialzarsi presto
e di godere con noi della brezza e del sole di primavera

ai guerrieri in camice bianco giorno e notte sul campo
sprezzanti del pericolo e pronti al sacrificio
scriviamo una poesia di profonda emozione
per offrire loro il saluto e il tributo che serbiamo in cuore

ai soldati accorsi in nostro aiuto da mille chilometri
alle squadre di medici da ogni dove che hanno
lasciato i propri cari e rinunciato al riposo, a chiunque
abbia donato beni e denaro, scriviamo una lunga poesia
a celebrarne il merito e l’altruismo

cos’altro possiamo fare?
possiamo portare la mascherina
bere molto, lavar bene le mani
restare in casa, non uscire
noi siamo con il resto della Cina!3)

Due elementi emergono con particolare evidenza da questa interrogazione sul ruolo del poeta nella crisi in corso. In primo luogo, il poeta è assolutamente impegnato e ben inserito nel contesto generale: il suo ruolo consiste precisamente nel riconoscere la propria posizione nell’ambito del più vasto sforzo nazionale per sconfiggere l’epidemia. Questo ruolo, evidentissimo e persino performativo soprattutto nell’ultima strofa pentastica (ove il poeta riprende le comuni norme della prevenzione igienica: indossare la mascherina, lavarsi le mani, ecc.), sembra rievocare l’impegno sociale e prima di tutto pedagogico che ha tradizionalmente caratterizzato la poesia cinese, in diversi secoli e declinazioni, secondo l’antica massima “le lettere trasmettono il dao” (wen yi zai dao 文以载道).4) Guai ad abdicare (quexi  缺席, il verbo cinese, ricorrente nei discorsi delle autorità letterarie degli ultimi mesi) a tale ruolo: il Paese è mobilitato e il poeta deve fare la propria parte.

In secondo luogo, Liu Yishan fa ciò riprendendo precisamente i soggetti e i temi del discorso statale, dal plauso dei medici “guerrieri” (zhanshi 战士) a quello dei militari veri e propri, insieme alla retorica marziale della guerra da vincere contro un nemico oscuro e implacabile, così che il popolo potrà alfine godere della primavera. Sono questi alcuni dei topos più frequenti nei “poeti dell’isolamento”, ma bisogna essere cauti prima di derubricarli a semplice ventriloquismo propagandistico. Tornano utili le parole di Tamburello nella sua analisi della poesia della SARS, anch’essa fortemente legata al discorso statale: “È innegabile che per un lettore occidentale, o anche semplicemente europeo, nella lettura dei quotidiani cinesi l’impatto con la retorica propagandistica del Partito sia disarmante. Ci appare artificiale così com’è. Viene da domandarsi se suoni altrettanto artificiale a un orecchio cinese”.5) Orecchio che non va inteso come “culturalmente” o intrinsecamente cinese, bensì inserito in un contesto socio-politico e discorsivo e in un momento storico ben precisi.

In altre poesie si trovano, maggiormente marcate, profonde riflessioni sui silenzi, sulla solitudine, sul senso del pericolo invisibile ma incombente, sulle difficoltà anzitutto psicologiche imposte dall’epidemia e dalla quarantena. È la quiete a regnare e offrirsi come spazio di pensiero in questa poesia di Jian Nan 剑男, altro noto poeta hubeiese:

silenziosa è Wuhan stanotte
silenziose le acque del lago d’Oriente e del fiume Azzurro
silenziosi la torre della Gru Gialla e il teatro Cintai
silenziose le strade, gli alberi e le luci
come chi, capitato un fatto,
mani dietro la schiena, riflette su se stesso nella quiete
dall’alto dei palazzi velati dalla fine pioggia
lo sguardo si volge lentamente da Jiedaokou al fiume
come quando lentamente mi innamorai
dei suoi suoni. Ha conosciuto innumerevoli alluvioni,
guerre, persino epidemie, naturalmente
non è mai stata perfetta, proprio come ora
sono indaffarati gli angeli, ma a qualcuno
si congela il cuore, come un altro virus
addolora il prezzo di questo silenzio
ma se incalzassi a domandare chi ha fatto sì
che il virus si propagasse, sfrecceranno allora
i pipistrelli, uno dopo l’altro da angoli
bui piovendo, e ci elencheranno
i nostri peccati? Tutte le cure, a una a una,
si stanno svolgendo nel silenzio, e mi sembra quasi di sentire
i battiti pulsanti del cuore di questa città
nella grande Hankou e nella vecchia Wuchang, a Caidian
e nel porto di Yinglu, come innumerevoli
cuori che battono all’unisono, muti ma potenti6)

L’immagine della città silente nella notte è tipicamente dotata di un fascino speciale, e la poesia di Jian Nan non fa eccezione; ma quello che pesa su Wuhan, evocata tramite numerosi punti di riferimento materiali, è un silenzio pulsante, dove scorrono e si sviluppano i pensieri: il silenzio ha un pesantissimo “prezzo” e la consapevolezza di ciò genera un’angoscia opprimente “come un altro virus”.

La poesia prende il via da un’immagine assai reale e materiale, evocando Wuhan con numerosi riferimenti topografici, per poi accompagnare la riflessione nella sua graduale discesa nel profondo del subconscio sociale e collettivo. Qui si annidano i pipistrelli – ritenuti “responsabili” del trasferimento del virus all’uomo –, pronti a sfrecciare fuori e rivolgere il loro j’accuse allo stile di consumo scellerato e forsennato che, violentando la natura, ha generato l’epidemia. Indubbiamente, rispetto a tanti altri, l’originalità dell’approccio di Jian Nan sta proprio qui, nel suo considerare il virus non come una calamità piovuta dal cielo, bensì come effetto di responsabilità umane, se non antropocentriche.7) A questo punto la poesia, come destatasi dalla visione, risale in superficie, di nuovo abbiamo la Wuhan fisica e reale, dove “tutte le cure, una a una, / si stanno svolgendo nel silenzio”. L’immagine degli “innumerevoli / cuori che battono all’unisono” richiama certamente la retorica dell’unità e della mobilitazione contro il virus, ma la chiusa sulla potenza del silenzio ribadisce una più profonda funzione contemplativa della poesia. Il poeta non si limita a prendere parte alla mobilitazione generale, ma gli si impone una riflessione sul reale, come chi “mani dietro la schiena, riflette su se stesso nella quiete”, nel silenzio imposto della quarantena.

Voci poetiche “non ufficiali”

È altresì interessante esaminare ciò che si muove al di fuori dei circuiti culturali ed editoriali di Stato, non tanto per replicare la facile ma sempreverde dicotomia “ufficiale versus non ufficiale” (guanfang 官方 contro minjian 民间), quanto per offrire uno spaccato della pluralità delle voci provenienti da diverse sfere sociali, la cui creatività di pensiero è forse stimolata anche dal non essere inseriti in determinati contesti.

È per esempio singolare, nonché decisamente poco “ufficiale”, l’uso pungente dell’ironia da parte di Ni Zhou 逆舟. Di lui non sappiamo molto: i suoi lavori sono apparsi sulla rivista Poesia operaia (Gongren shige 工人诗歌), che però non fornisce indicazioni biografiche sull’autore. Dalle sue poesie apprendiamo lavori come operaio edile, migrante dalla campagna alla città. I versi seguenti sono stati pubblicati, insieme ad altri componimenti, sul blog della suddetta rivista:

un compare dice
che questo coronavirus è mutato dalla peste suina
dell’anno scorso e s’è trasmesso all’uomo
anche i maiali quando morivano avevano la febbre
un altro dice che il virus è vento velenifero
altrimenti, dicono,
non sarebbe potuto arrivare
più veloce
più feroce
del freddo

perdonate la nostra idiozia
e perdonate la nostra ignoranza
è che in realtà non riusciamo proprio a capire
perché?8)

Ni Zhou immagina una classica situazione dove il chiacchiericcio popolare e le fake news si diffondono incontrollabili, nella fattispecie sottoforma di un inesistente legame fra il coronavirus con la peste suina che ha funestato la Cina l’anno scorso o con un “vento velenifero” (dufeng 毒风), fattore presente nella medicina tradizionale cinese. Nella prima parte della poesia, le sciocchezze dei propagatori di chiacchiere si confondono con una certa serietà, se non solennità, nella forma, come a voler concedere loro di essere prese sul serio. Inoltre, nel primo distico della seconda strofa, dove si chiede perdono per l’“idiozia” e l’“ignoranza”, queste condizioni sono “nostre” (women de sha 我们的傻; women de yumei  我们的愚昧), non “loro”, dei compari propagatori di chiacchiere, lasciando intendere che l’autore non si considera affatto al di sopra del “popolino” turlupinato dalle fake news. La permeante ironia, insomma, prima maschera e poi svela una condizione d’animo sbigottita davanti all’accaduto.

La questione è ancor più delicata se si considera che le autorità cinesi di pubblica sicurezza hanno usato la mano pesante contro quanti sono stati ritenuti colpevoli di seminare notizie false. Di questa accusa, com’è tristemente noto, è rimasto vittima anche Li Wenliang 李文亮, il primo medico a denunciare la comparsa del nuovo coronavirus, ma poi accusato di diffondere il panico dalla polizia di Wuhan. Riabilitato poco dopo, di recente è stato incluso fra “le personalità esemplari” (xianjin geren 先进个人) nella lotta al COVID-19; il virus l’aveva però ucciso il 7 febbraio, a soli 33 anni, generando un’ondata di rammarico e indignazione.

Ni Zhou maneggia quindi un tema piuttosto “caldo”, ma non vogliamo forzare l’interpretazione: non ci è proprio dato a sapere egli avesse in mente Li Wenliang. Quella che viene comunque trasmessa è un’idea di forte confusione davanti a una realtà che non appare decifrabile in alcun modo. Se nei “poeti della quarantena” il soggetto è in genere impegnato nella guerra contro il virus, l’uomo comune delle poesie di Ni Zhou – e non solo – è ben poco eroico, immerso invece nella disarmante semplicità del suo smarrimento nel mezzo di una vita quotidiana mutata così improvvisamente e radicalmente (e purtroppo il lettore italiano vi si potrà riconoscere molto bene): “le strade / non sono quelle strade / le case non sono quelle case / nemmeno il cielo è quel cielo / e le persone non sono solo persone”.

Ma, è bene ribadirlo, occorre resistere alla tentazione di cadere nelle dicotomie. Non bisogna pensare a una poesia “ufficiale” imbevuta di propaganda contro una poesia “del popolo” ad essa impermeabile. Ce lo ricordano altre voci che, benché a loro volta operaie, sono ben più vicine alla “poesia della quarantena” e alla narrazione di Stato rispetto all’autore che abbiamo appena preso in esame:

questa festa di primavera [capodanno “cinese”, NdT] è stata un po’ particolare
la notte della vigilia un ordine urgente d’improvviso ha solcato tutto il Paese
l’epidemia si sta propagando, un feroce demone si prepara a colpire
gli organismi vitali di noi tutti
e noi, noi dobbiamo immediatamente raccogliere le forze e resistergli!

[…]

ma – guardate!, quei combattenti all’assalto in prima linea, mai in ritirata,
si raccolgono, giorno e notte negli ospedali accudiscono e curano i malati
pattugliano le strade e i palazzi, mantengono l’ordine, fanno consegne, misurano la febbre
loro: impavidi dinanzi al nemico celato, incuranti del vento gelido, madidi di sudore

dai picchi del cielo un’altra ondata di freddo primaverile parte al contrattacco
ma noi ne siamo certi:
verrà il vento di primavera a far sbocciare i fiori e carezzare i giorni
e in città e in campagna d’un tratto regneranno risa gioiose

Autore di questi versi è Ma Dayong 马大勇, lavoratore migrante pubblicato su Letteratura dei nuovi operai (Xin gongren wenxue 新工人文学). Non vi è molta differenza rispetto ai tratti salienti della “poesia della quarantena” esposti sopra: ritroviamo l’immagine della guerra, proclamata da un “ordine” (mingling 命令), da combattere contro il nemico virus, un “demone” (yaomo 妖魔; di nuovo la calamità, quindi), e la primavera che attende al termine del conflitto. Ritroviamo infine il plauso agli operatori sanitari, le squadre d’assalto della guerra, anche se Ma Dayong non manca di estendere tale encomio a tutti gli altri lavoratori che, benché meno centrali nelle cronache massmediatiche, sono comunque altrettanto esposti al pericolo; non da ultimi, i “rider”, fondamentali nel garantire la consegna del cibo e altri beni di prima necessità ai cittadini mobilitati al chiuso delle proprie abitazioni.

Torna utile allora l’avvertenza di Tamburello sull’“orecchio cinese”: ad autori e opere va riconosciuta la loro dignità, e proprio il ritrovare le stesse immagini, figure e, per molti versi, strategie retoriche in autori molto diversi per estrazione sociale e per collocazione nel “campo della produzione culturale”, per dirla con Bourdieu, ci dà il senso della pervasività di una certa tipologia di discorso. Questa pervasività non si può spiegare con la coercizione simbolica imposta dall’apparato propagandistico, una soluzione semplicistica che tuttavia risulta sempre così seducente per noi “occidentali”, spesso convinti peraltro che la propaganda sia un problema soltanto dell’“Altro” – ben poco a ragione, visto quanto sta accadendo nelle nostre stesse società. È indubbio che la narrazione statale giochi un ruolo primario, ma ben più fa la condizione psicologica creata dal disciplinamento (la quarantena, le restrizioni) e dalla paura.12)

È però curioso, almeno per il lettore italiano in questo momento storico, non trovare ciò che ci potremmo aspettare da poeti operai: licenziamenti, decurtazioni di salario, condizioni di lavoro con il virus che incombe (tutti problemi che, beninteso, riguardano anche la Cina). Si possono avanzare alcune ipotesi. La prima è che, naturalmente, vi sia molto di più rispetto al corpusdi lavori presi in esame in questo saggio, sia sincronicamente (autori operai che ne stanno attualmente parlando) sia diacronicamente (se ne parlerà in futuro). È inoltre possibile che l’abbattersi del coronavirus sulla Cina in tempi di capodanno lunare, quando le città si svuotano di cinesi che vanno a trascorrere le festività con la famiglia nella natia campagna, abbia favorito un certo cuscinetto sociale sottoforma di welfare famigliare. Altri lavori recenti pubblicati su Poesia operaia, infatti, vedono in genere l’operaio in campagna, non in fabbrica o in città. Ma l’idea della calamità naturale e della mobilitazione generale hanno una forte valenza discorsiva anche in un altro senso: la prima potrebbe indurre una fatale accettazione dei disagi causati a livello lavorativo, la seconda ne favorirebbe la sopportazione nel nome di uno sforzo nazionale collettivo teso a superare la crisi.

Il rifiuto della retorica

Long Qiaoling 龙巧玲è un’infermiera del Gansu. Quando la provincia dello Hubei ha comunicato di avere esigenza di operatori sanitari, ella si è recata volontaria nell’epicentro, venendo dislocata in uno degli ospedali d’emergenza allestiti a Wuhan. Una poesia scritta durante questa esperienza, con lo pseudonimo di Wei Shuiyin 弱水吟, l’ha resa famosissima in Cina come nel mondo. In essa, la donna, decisamente una “combattente di prima linea” nella lotta al virus, opera un nettissimo rifiuto della retorica dominante. Vale perciò la pena riportarla per intero:

vi prego, fatemi togliere l’uniforme protettiva e la maschera
fatemi tirare fuori la carne dall’armatura
lasciate che mi affidi un po’ alla mia salute
fatemi respirare tranquilla
ahi…
vostri gli slogan
vostri gli elogi
la propaganda, i lavoratori modello, tutti vostri
io sto solo compiendo il mio dovere
salvando la coscienza di operatrice sanitaria
spesso non c’è altra scelta che andare in battaglia a petto nudo
non c’è tempo di scegliere fra la vita e la morte
ma, davvero, senza alcuna nobile intenzione
vi prego, non copritemi di allori
non applauditemi
non riconoscetemi alcun infortunio, alcun martirio, alcun merito
non sono venuta a Wuhan per contemplare i ciliegi in fiore
o per godere del paesaggio, per ricevere plausi
voglio solo poter tornare a casa sana e salva dopo l’epidemia
anche se di me rimanessero solo le ossa
voglio riportarmi dai miei figli, dai miei genitori
vorrei chiedere
chi è disposto a portare l’urna di un compatriota
sulla via del ritorno?
media, giornalisti
vi prego, non venite più a disturbarmi
tutti i vostri dati reali, le vostre statistiche
io non ho tempo né voglia di seguirle
esausta di giorno, esausta di notte
di riposo e di sonno
ho più bisogno che dei vostri elogi
se potete, vi prego, andate a vedere
quelle case disastrate
esce ancora fumo dai camini?
quei cellulari che vagano nei crematori
hanno ritrovato il loro proprietario?

L’intera poesia si impernia su un rifiuto esplicito della retorica massmediatica. L’intenzione dell’autrice sembra proiettata a rivendicare la propria ordinarietà rispetto alla figura eroica dell’operatore sanitario presente nelle cronache di tutti i giorni. Coloro che stanno sostenendo il peso del lavoro sanitario, sembra suggerire, sono invece persone comuni impegnate nel proprio lavoro, distrutte dopo giornate e nottate estenuanti, psicologicamente devastate dalla morte che le circonda, e la cui aspirazione “inconfessabile” non è assurgere a paladini della patria, ma sopravvivere all’epidemia cui sono quotidianamente esposte e riabbracciare così i propri cari. La poesia spoglia l’infermiera dell’uniforme protettiva che, come la divisa fa il soldato, fa di lei la combattente di prima linea nella guerra di popolo al virus; così facendo, la presenta denudata a semplice individuo, in tutto il suo anonimato.

Inizialmente Long Qiaoling aveva postato il proprio componimento su WeChat. È stato cancellato nel giro di poco tempo. Eppure, la poesia non contiene alcun verso che si potrebbe giudicare particolarmente “sensibile”, come si usa dire in Cina: certo, vi è un esplicito riferimento alla propaganda (“vostri gli slogan / vostri gli elogi / la propaganda, i lavoratori modello, tutti vostri”), ma la polemica – se di polemica si può parlare – è rivolta ai mass media, non allo Stato. Nemmeno la rivendicazione dell’ordinario anonimato, probabilmente, presenta problemi da questo punto di vista. Allora forse la chiave sta proprio in quei “vostri”: la netta rottura con la retorica dominante e la volontà di sottrarsi alla mobilitazione nazionale potrebbero aprire una crepa nella grande narrazione di Stato. Tutti, anche i “compari propagatori di chiacchiere” visti sopra, possono in qualche modo essere ricondotti al mosaico del grande sforzo nazionale. Un discorso che si tira totalmente fuori dalla mobilitazione, al contrario, è irriconducibile. Oppure la poesia potrebbe essere stata penalizzata dal “demerito” di aver rilanciato, con i versi finali sui cellulari “randagi”, una bufala circolata a febbraio, quando circolò una foto ritraente un cumulo di cellulari accatastati in quello che si diceva essere un crematorio. La foto si è poi rivelata un falso, attribuita inizialmente persino Fang Fang (la quale, per questo, ha sporto querela).

Il patriarcato soffoca quanto il coronavirus

Lasciamoci alle spalle la poesia per indagare un altro lato di queste (auto)narrazioni: che tipo di impatto viene prodotto dall’emergenza sulla vita quotidiana degli individui, specialmente quelli collocati ai gradini più bassi della piramide sociale?

Negli ultimi mesi, il blog La tribù del peperoncino (Jianjiao buluo 尖椒部落), molto attento alle narrazioni femminili e operaie, ha pubblicato numerose storie di lavoratrici migranti alle prese con l’emergenza, solitamente bloccate al villaggio d’origine o nella solitudine dei conglomerati delle periferie urbane; con l’avvicinarsi dell’8 marzo ha persino lanciato una raccolta di manoscritti di lavoratrici domestiche sul tema “Isolamento e mobilità” (fengbi yu liudong 封闭与流动). Per “lavoratrici domestiche” (jiazheng nügong 家政女工) si intende una tipologia che integra grossomodo le funzioni di balia, colf e badante. È una categoria non propriamente inedita nel panorama sociale cinese, ma senz’altro nuova nella sua attuale espansione, resa possibile solo nella città consumistica prodotta dagli ultimi decenni di sviluppo economico e dal contestuale venirsi a formare della nuova borghesia urbana. Considerato che la stragrande maggioranza delle domestiche appartiene all’esercito dei lavoratori migranti che hanno lasciato la campagna per inurbarsi in cerca di possibilità lavorative, per loro la metropoli rappresenta l’unica fonte di sostentamento, sia pure estremamente precaria, poiché dipende dall’arbitrio dei datori di lavoro; ma per molte l’indipendenza economica e i nuovi legami sociali hanno portato anche una certa emancipazione di genere.

Uno degli esempi più significativi e densi di contenuto da questo punto di vista è costituito dal breve racconto, che si potrebbe definire di auto/non-fiction, scritto da Meng Yu 梦雨 (pseudonimo di Li Wenli 李文丽), domestica a Pechino, trovatasi inaspettatamente bloccata per mesi nel proprio villaggio natio, nel profondo rurale del Gansu, dove solitamente trascorre appena una settimana all’anno per le ferie comandate del capodanno lunare. Nel racconto di Meng Yu gli elementi succitati caratterizzanti la vita delle domestiche si ritrovano tutti. Da rilevare che il pezzo è inteso come una lettera “alle sorelle lavoratrici domestiche” (gei jiazhenggong jiemei 给家政工姐妹), ponendosi in una dimensione collettiva.

Meng Yu racconta il ritorno a casa e gli impegni fra il matrimonio per la figlia e la preparazione del capodanno. Le notizie sul virus si fanno via via più inquietanti: quelli che sembrano fatti relegati in una provincia lontana si avvicinano sempre più e, in men che non si dica, investono la vita della donna: “prima ancora che potessi rendermi conto di quanto stava succedendo, hanno chiuso le città, chiuso i distretti, chiuso i villaggi, bloccato i mezzi di trasporto… a poco a poco, ci hanno tagliato fuori dal mondo esterno”. A questo punto Meng Yu rivolge alcuni consigli pratici alle “sorelle lavoratrici domestiche”, in particolare esortandole, prima di tornare al lavoro, a sincerarsi con il padrone di potere avere un luogo dove poter trascorrere le due settimane di quarantena forzata, con stipendio e consegna dei pasti garantiti: “noi, domestiche senza alcuna assicurazione sanitaria, dobbiamo assolutamente prenderci cura di noi stesse!”

Mi si permetta una breve digressione per sottolineare come al racconto dei fatti si mischi il mutuo soccorso. Lo stesso si verifica, per esempio, nel resoconto di un’ex operaia tessile oggi lavoratrice migrante, sempre sullo stesso blog, la quale racconta di come abbia perso il lavoro a causa dell’epidemia e si trovi in difficoltà per pagare gli studi al figlio; il pezzo è preceduto da una breve prefazione di Jing Yuan 静远, animatrice di un laboratorio di scrittura per lavoratrici domestiche, la quale esorta “chi ha apprezzato il suo racconto” a contattarla e aiutarla a trovare un altro impiego.15) L’estrema precarietà delle lavoratrici domestiche fa sì che l’autonarrazione diventi anche l’unico strumento assistenziale pratico attualmente a loro disposizione.

Meng Yu affida alle parole il suo sfogo per essere giocoforza ripiombata in una insopportabile condizione subalterna:

Non vi nascondo – scrive – che a volte vorrei persino gridare: non mi fa paura essere contagiata, ma i maltrattamenti da parte di mio marito. Parlo sul serio: il conservatorismo della mia famiglia mi soffoca e sono state le limitazioni imposte da questa epidemia a farmi vedere con ancora più lucidità i traumi causati dalla mia famiglia: ne ho avuto abbastanza di questa vita!

Le offese gratuite del marito, il quale la accusa persino di avere un amante in città, se non addirittura di prostituirsi, rendono insopportabile la vita in casa, ma “ancora più dolorose sono le opinioni degli altri parenti”, per i quali è solo naturale che una donna assente di casa per tutto il resto dell’anno si sottoponga di nuovo alla schiavitù domestica. La sua stessa dignità di scrittrice (Meng Yu scrive racconti e poesie e fa parte di alcuni gruppi culturali a Pechino) viene fortemente screditata: “‘Di che dovrebbe occuparsi una donna se non del cucito, leggere forse?’, ‘Alla tua età ancora a leggere e scrivere roba, ma che ci fai? Mettiti a fare qualcosa di serio!’”.

La situazione d’emergenza insomma non fa che esacerbare condizioni già esistenti, latenti, determinate da una gerarchia patriarcale ancora ben in vigore nella sua forma più cruenta nelle campagne cinesi. Il contagio è sì temibile, ma non quanto la condizione persistente e strutturale della subalternità di genere. Ciò induce l’autrice a una riflessione su ciò che la città, in fondo, significhi per lei, in un rapporto ambivalente fra la precarietà determinata da rapporti di lavoro fortemente svantaggiosi e le condizioni più favorevoli per la propria emancipazione di genere:

Sono fuori di me! Sì, è vero, sono una lavoratrice domestica, lavoro lontano, mi occupo degli altri, mi faccio comandare, talvolta mi capitano anche cose che per qualcun altro sarebbero inimmaginabili. Da mattina a sera sacrifico tutte le mie energie e tutto il mio tempo sul posto di lavoro, con attenzione e impegno, per poter dare alla mia famiglia una vita migliore. E però quando torno a casa non solo devo sopportare le illazioni dei parenti, ma anche qui devo pure occuparmi degli altri.

[…] Dopo tutti questi anni, sul lavoro siamo come pesci nell’acqua, ci siamo abituate ai ritmi rapidissimi della vita nella metropoli, ma adesso fatichiamo a reintegrarci nella vita di famiglia che ci manca così ardentemente. Eppure al pensiero di tornare in città ho ricominciato a provare sensazioni contrastanti, a farmi prendere dall’ansia: quella vita così opprimente, di giornate piene di preoccupazioni, per non parlare delle prospettive lavorative probabilmente ben poco rosee dopo l’epidemia, mi hanno fatta sentire senza riparo. Chissà come faremo ad affrontare quel che ci aspetta?

Meng Yu esplora così un altro aspetto del coronavirus, meno visibile nelle cronache di tutti i giorni e nelle grandi retoriche, ma significativo per milioni di donne (e non solo): il rimanere costretti, dall’isolamento o dalla quarantena, in una situazione difficile, opprimente, nei casi peggiori persino pericolosa. Per lei, appartenente a una classe lavoratrice mobile per definizione, l’immobilitàimprovvisa e forzata è però anche l’occasione per ragionare sulla propria agentività all’interno della migrazione, cioè su quanto la migrazione rappresenti una possibilità di riscatto o solo un passaggio da una rete di rapporti sociali iniqui ad un’altra dimensione di rapporti sociali altrettanto iniqui. Dalle ultime parole di Meng Yu sembra che entrambi gli aspetti coesistano.

Considerazioni conclusive

È curioso che l’influenza spagnola del 1918-20, alla quale l’attuale pandemia viene sovente comparata, non abbia tramandato tracce letterarie degne di nota, pur lasciando un solco nel mondo delle lettere: si portò via, fra gli altri, il grande poeta francese Apollinaire. Oggi invece si avverte una fortissima esigenza di narrare quanto sta avvenendo, sicuramente anche grazie ai nuovi media, ma non solo.

Nel caso cinese, la mobilitazione totale della società ha reso ciascun cittadino un “soldato del regno”, anche se il suo compito è stare chiuso nella propria abitazione; come recita una battuta in voga, “stare a casa a dormire è il nostro contributo” (zai jia shuijiao zuo gongxian 在家睡觉做贡献). Ma sotto la patina della mobilitazione vi sono dubbi, incertezze, sgomento, angoscia, rabbia, indignazione, vecchi e nuovi problemi esacerbati dall’immobilità forzata. C’è tutta un’altra storia, o, per meglio dire, tante altre storie che affidano alle lettere, siano esse stampate o virtuali, l’elaborazione di una propria narrazione. Il che non significa necessariamente che queste narrazioni siano alternative alla grande narrazione di Stato; ci danno però l’idea di come molteplici soggettività, esposte a tale narrazione, vi si conformino, vi si adattino, oppure ne evadano in vario modo.

Certo, il resoconto presentato in questo articolo non ha affatto l’ambizione di essere esaustivo. Tuttavia, ricostruire questo mosaico di narrazioni è un po’ come ricomporre una fetta di quella “historia casi universal” che Eduardo Galeano, stimato autore uruguaiano, cerca di estrarre dalle “storie non ufficiali” del mondo.

Prevedendo i “sonori squilli di trombe e roboanti rulli di tamburi” che accompagneranno la fine dell’epidemia, in un recente intervento lo scrittore cinese Yan Lianke 阎连科 esorta a “diventare esseri pensanti dotati di memoria nella quale imprimere i nostri ricordi”: a non soggiacere a quella che è o sarà la narrazione egemonica, ma custodire la propria memoria critica. Sopravvivere non è tutto. Occorre anche una lettura più profonda ed emotiva di quanto sta avvenendo, che ci aiuti a dare un senso a come noi tutti, ciascuno nella propria singolarità ma anche nell’insieme dei nostri rapporti, stiamo vivendo gli avvenimenti. E che resti come inestimabile testimonianza, come memoria critica. La scrittura si sta dimostrando in grado di evadere dall’impotenza cui potrebbe essere altrimenti condannata.

[QUI PER LEGGERE L’ORIGINALE]

Di Federico Picerni per Sinosfere*

**Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.